Camaleontica, trasformista, una vera funambola dell’identità femminile. Cindy Sherman è la più eclettica tra le artiste che hanno fatto del self-portrait il perno della propria ricerca. I suoi autoscatti sostanzialmente centralizzano l’attenzione su due figure, che sono in realtà una sola: l’autore e il soggetto.
Perché di fatto, da più di quarant’anni a questa parte, autore e soggetto sono una sola persona: lei. Lei che di volta in volta, di scatto in scatto muta, si traveste e cambia volto, cambia corpo, cambia genere, cambia realtà. Diventa sempre altro da sé. Un po’ come accade a noi internauti anonimi, mendicanti di visibilità, quando ci prepariamo per scattare un selfie. A noi che oramai dipendiamo dai like dei nostri followers, proporre sempre la stessa immagine risulta infelice. Dobbiamo raccontare di essere molte cose e di farne ancora di più. Dobbiamo, in qualche modo, diventare qualcosa d’altro rispetto a quel che sentiamo di essere. Per accattivare, piacere, sorprendere. Dobbiamo scattare un selfie che catturi l’attenzione. Dunque a volte scegliamo accuratamente il luogo, il contesto, la cornice, controlliamo che sullo sfondo ci sia esattamente ciò che desideriamo si intravveda. Pensiamo alla nostra immagine: i capelli, il trucco, la smorfia, l’espressione. L’imperfezione, se la notiamo il più delle volte non la vogliamo, e allora passiamo in rassegna tutti i filtri che il nostro smartphone, o lo stesso instagram, ci propone, al fine di ottenere un’immagine di noi che vorrebbe spacciarsi per spontanea, ma che in verità è più che mai studiata. Dal set al personaggio. Un po’ come farebbe la Sherman. Un po’ come la Sherman fa da quarant’anni, ma con un intento sempre diverso, specificamente provocatorio, concettuale e critico.
Per ogni autoscatto si trasforma in una donna diversa. La fotografia per lei è sempre stato un mezzo utile a immortalare vere e proprie alterazioni di identità. Ma prima di essere una fotografa è certamente una performer. Ha, del performer, l’attitudine all’istrionismo, questa teatrale abilità scenica che le permette di essere chiunque decida di essere, di diventare ogni volta un personaggio diverso. Ma non attua le sue mutazioni davanti a un pubblico. Usa il medium fotografico per fissare l’azione. Perché a interessarle è il concetto che un’immagine può incarnare; la provocazione, la distorsione e il disorientamento che ne conseguono. E perché queste trasformazioni avvengano nel più impeccabile dei modi, meticolosamente ne studia e cura ogni dettaglio, trasformando se stessa fino a rendersi irriconoscibile. Dietro a un suo autoritratto esiste uno studio approfondito, una grande progettualità, una ricerca certosina di costumi, tessuti, oggetti, parrucche e make up.
C’è da dire, poi, che di recente si è tanto parlato del suo nuovo profilo instagram, aperto da poco più di un anno e con il quale gioca a rivisitare una serie di autoritratti, attraverso quelle che sono oggi le potenzialità del mezzo digitale, quindi utilizzando la grande varietà di filtri e applicazioni che consentono di modificare oltremisura l’immagine originale. Una scelta, questa, al passo coi tempi e perfettamente in linea con il suo modo di lavorare! Ne risulta una gallery debordante di selfie deformati, dalle fisionomie distorte. Ma chi è Cindy Sherman?
Cindy è oggi una donna di 64 anni. Nata nel New Jersey nel 1954, ultimogenita di un ingegnere e un’insegnante. Ha frequentato la State University of New York di Buffalo, e ha intrapreso il suo percorso all’interno delle arti visive prima come pittrice, poi spostandosi sull’uso del proprio corpo. Un po’ come è successo ad altre performer – penso alla stessa Abramovic – a differenza delle quali, però, la Sherman ha preferito la fissità dell’immagine fotografica all’azione stessa. Pare che la sua attitudine al trasformismo sia emersa già nei primi anni dell’università, quando iniziò a frequentare musei e gallerie d’arte, ai cui vernissage si presentava travestita ogni volta da un personaggio diverso. Fu un modo per farsi notare, ma che presto sarebbe diventato il cuore del suo lavoro.
Nel 1976 si trasferì a New York in un attico di Manhattan, dedicandosi completamente alla fotografia e sperimentando le estreme potenzialità dell’artificio. Tra il 1977 e il 1980 realizza una delle sue serie più celebri: Untitled Film Stills / Fermo-immagine senza titolo, che nel 1995 verrà acquistata dal MOMA di New York per oltre un milione di dollari. Si tratta di 69 autoscatti in cui la Sherman ricostruisce fedelmente il set di alcune scene di film hollywoodiani degli anni Cinquanta e Sessanta, però mai riconducibili a uno specifico titolo e a un preciso regista. In alcuni di questi scatti veste i panni della prostituta, in altri quelli della donna in carriera, della squilibrata mentale, della casalinga. Ruoli dell’immaginario collettivo di impostazione maschilista, tutti immortalati in una sorta di fotogrammi fissi. Più che fotografie, queste sembrano essere veri e propri fermo-immagine, in quanto il soggetto – l’artista – non ci guarda, così come un attore non guarderebbe in camera mentre interpreta la sua parte. Le eroine shermaniane qui sono eternate in un bianco e nero che evoca le pellicole del dopoguerra. E le atmosfere, le ambientazioni ci riportano a volte sulla scena di un film horror, altre sulla scena di un noir.
Il suo lavoro è parso come una sorta di critica, anche piuttosto palese, alla società maschilista, ai media, e alla stessa cinematografia. Un’accusa di abuso e svuotamento dell’immagine femminile, fino a ridurre la donna stessa a nulla più che uno stereotipo. In qualche caso, invece, è avvenuto un ribaltamento: la sua presenza è divenuta marginale e il vero protagonista si è rivelato essere il set. Accade questo in un’opera che forse non è tra le più note ma che certamente risulta molto laboriosa. Si tratta di Untitled n.175 una fotografia del 1987 realizzata per una rivista americana che le chiese di produrre alcuni lavori ispirati al mondo delle fiabe. Ma il mondo delle fiabe non può restare intatto nella sua fantasia. Qualcosa va deformato, distrutto. E in questo scatto, in effetti, di fiabesco c’è ben poco. Tutto appare caotico, sporco, disgustoso. La presenza della Sherman esiste nel riflesso della lente di un paio di occhiali da sole gettati su un pavimento sudicio di vomito. L’atmosfera sa di devastazione: pasticcini al cioccolato sembrano essere esplosi assieme a pezzi di torta della nonna. Un lembo di abito bianco riconduce alla sua presenza. Ma il suo corpo pare giacere senza vita; forse la donna è stata assassinata. La serie degli Untitled ispirati alle fiabe è, di fatto, costituita da immagini decisamente raccapriccianti, a volte strambe altre inquietanti, ma che in ogni caso violano l’ovattata dimensione di racconto a lieto fine.
In tutti i suoi lavori la Sherman mira a decostruire o stravolgere l’impostazione predefinita, confezionata e rassicurante di una certa realtà. Accade con la serie History Portraits del 1989 in cui si trasforma in alcune delle più note icone femminili e, in numero più ridotto, maschili della storia dell’arte. Dal Bacco di Caravaggio alla Madame De Pompadour di Boucher, dalla Fornarina di Raffaello alla Madonna col Bambino di Fouquet, ritratti nobildonne, di amanti o madonne del Rinascimento, del Barocco, del Rococò e del Neoclassicismo, rivivono in un nuovo, artificioso plasticismo.
Pare che l’idea di questo lavoro sia nata dopo un lungo soggiorno a Roma, durante il quale l’artista ha visitato i più importanti musei della capitale. Cindy decide di posare trasformando se stessa di volta in volta in un personaggio tratto da un celebre dipinto. E se Orlan, per avere i connotati della Monnalisa di Leonardo o della Venere del Botticelli, ricorrerà alla chirurgia estetica inaugurando l’era della Carnal Art, la Sherman farà ricorso a dispositivi protesici. La ricostruzione dell’opera, però, non è di fatto mai fedele all’originale.
Al contrario, l’intento è proprio quello di fornire una iniziale percezione di riconoscimento dell’opera nel fruitore, per poi provocare una sorta di disorientamento. L’artista giunge a questo risultato combinando vari elementi provenienti da fonti iconografiche differenti, ma che portano ad una percezione finale spiazzante. Ciò che ne risulta è la versione grottesca del dipinto al quale si era inizialmente ispirata. L’effetto è destabilizzante, e ha lo scopo di togliere all’osservatore la certezza di un’apparentemente, consolidata immortalità e immutabilità dell’opera d’arte. L’assemblage e la performatività sono, in questo caso, al servizio della dissacrazione.
Con gli anni Duemila il suo lavoro si è pian piano spostato dall’analogico al digitale, e da queste nuove sperimentazioni è nata la serie dei Clowns. Siamo nel 2004 e gli scatti che la ritraggono travestita da pagliaccio, in una dimensione dalla vivida e straniante cromia, sono nati a seguito di una riflessione sugli attacchi terroristici del 2001. La felicità patinata di uno Stato messo in ginocchio, questo le interessava tradurre. La Sherman ha cercato un’icona che fosse emblema di una enigmatica tristezza, malcelata da un’artefatta allegria. Il Clown le è apparso più che calzante: la maschera inquietante che tradisce il lato oscuro della realtà. Come l’artista stessa ha affermato: "Ho scelto i pagliacci per mostrare i complessi abissi emotivi che si nascondono dietro un sorriso dipinto".
Di lei Andy Warhol disse “è brava abbastanza per essere una vera attrice”. Ma quello che la Sherman mette in scena non è uno spettacolo: è il paradosso della nostra contemporaneità. Cindy Sherman vive e lavora a New York.