Quindici anni fa fui invitata ad allestire una personale in un convegno che aveva come tema i frutti della buona terra. Era organizzato dal Comune di Andora ma il progetto era partito da un gruppo di cittadini con la passione della salvaguardia per l'ambiente. In quel tempo realizzavo tavole botaniche e Grandi Pagine ispirate agli antichi manoscritti.
14 giugno 2003
Per arrivare ad Andora, ho attraversato quasi tutta la Liguria e ho visto la sistematica distruzione del territorio. Ho visto la sua fine. Non più serre che tenevano stretta e ferma la terra, ma condomini verticali in cemento. Sopra l'imbocco di una galleria, in una super strada, ampi terrazzi di villette residenziali guardavano l'andare veloce di auto e camion, insieme allo smog e al rumore. Ho attraversato interi quartieri dove l'autostrada passava accanto alle finestre di condomini soffocati a terra.
Che Liguria sognata era quella? Dove sono finiti i ricordi di una terra benedetta dal sole e protetta dai monti dove i miei nonni andavano a trascorrere miti inverni? Non riuscivo a farmene una ragione. Pensavo, distratta come sono, di aver sbagliato strada o peggio di trovarmi al centro di un brutto incubo: cemento, fumi d'industrie, autostrade come lame che tagliano il territorio. Ferite ovunque racchiuse nello spazio strettissimo che separa i monti dal mare. Tutta la vita che distrugge e divora compressa in una lunga striscia di terra. È qui che ho visto l'inferno della Divina Commedia con i suoi contemporanei gironi danteschi. La terra non è immobile e con l'invasione del cemento frana, le acque sotterrate ritrovano la loro via e esondano, il clima è impazzito, arrivano le bombe di pioggia e noi continuiamo, tutte le volte, ad assistere in tempo reale a sciagure "annunciate". E prima che arrivi anche per me l'ultimo respiro racconterò questi giorni di tenebra fitta.
Martedì 14 agosto 2018
"Il ponte Morandi, uno dei principali snodi autostradali di Genova, è crollato ieri poco prima di mezzogiorno. La struttura era da tempo sotto osservazione e c'erano stati allarmi sulla sicurezza. Numerose le vittime, i feriti e gli sfollati". Questo l'inizio di uno dei tanti articoli comparsi sui quotidiani. Io li leggo, seguo i telegiornali speciali e dopo la commozione immediata per le vite spezzate la mia attenzione viene colpita da una immagine nella quale un pilone del ponte si adagia sul tetto di una casa. Leggo: "Edifici sagomati per far posto ai piloni". Ecco, di tutta questa Italia che crolla io mi fermo qui. Mi fermo davanti alla fotografia di edifici con tetti sagomati per far posto ai piloni.
Sotto il piccolo ponte di Brooklyn di casa nostra non passa solo il torrente Polcèvera. No, in ordine sparso e in stato confusionale c'è quello che troviamo nelle periferie di tutte le città italiane. Le abitazioni si confondono con le fabbriche, qui sotto c'è anche uno snodo ferroviario. Le palazzine di via Fillak e di via Porro costruite negli anni Venti, Cinquanta e all'inizio degli anni Sessanta, quando fu inaugurato nel 1967 il ponte Morandi, simbolo del miracolo economico, c'erano già. So, anche per esperienza personale, che gli esseri umani nel pubblico e nel privato dopo un poco, ma anche subito, si adattano a qualsiasi condizione anche la più umiliante, la più pericolosa e la più tragica. Addirittura si è arrivati al paradosso che pur di lavorare - per sopravvivere o vivere dignitosamente - si muoia: è il caso dell'Ilva a Taranto, ma anche qui a Ravenna dell'Anic e della Sarom, tanto per fare qualche esempio. Non è la morte per incidenti anche questi annunciati, no qui la morte è subdola, avviene giorno dopo giorno e colpisce chi ci lavora e chi abita in zona. Ma ritorno a Genova.
Oggi è il 17 settembre. Dal crollo del ponte è trascorso poco più di un mese. Nei primi giorni stupore e annichilimento di fronte all'enormità della tragedia, poi, come ho già detto, sempre per via dello spirito di adattamento di noi umani ci si abitua a tutte le cose anche le peggiori. E così deve essere stato quando è iniziata, nel 1964 la costruzione del viadotto. Gli abitanti di via Fillak e di via Porro si saranno pur chiesti perché dal silenzio e dalla luce si era passati a rumori assordanti, ad un'aria appestata, a terremoti scesi dall'alto e a cieli oscurati? Ci sarà pur stato da qualche parte un punto interrogativo, si può passare dal paradiso all'inferno così, senza colpo ferire? Non lo so. Non se ne è saputo niente. C'era l'euforia del lavoro per tutti e il viadotto accorciava distanze, apriva la città a nuovi commerci. Era un'opera indispensabile e lo è diventata sempre di più, lo dimostra l'aumento di automobili e camion: sempre di più, sempre di più. Sempre di più fino al crollo con le sue 43 vittime. Qui, dentro le palazzine sotto il ponte, generazioni di persone, là, nel loro mondo di astrazione e di oggetti progettati, architetti, ingegneri, geometri.
Eppure quando rivivo emozioni, ricordi, anche i più lontani, li vivo racchiusi in uno spazio ben preciso, ben definito. Ricordo l'architettura e i luoghi di tutte le case dove ho vissuto e in racconti e disegni ne ho ritracciato gradini, corridoi, stanze, finestre, terrazzi, cantine, soffitte, luci, ombre, pranzi delle feste, visite di parenti, di amici, quotidiane solitudini, giochi, litigi e cucine con i loro riti. In ogni spazio collego la commozione di quel momento. E questa mia passione per le case che rispecchiano le persone che le abitano mi è rimasta per tutta la vita. Vi ritrovo il carattere di chi ci vive, ne riconosco l'autenticità e la bellezza e le ho narrate: c'è la casa d'Elena, quella di Claudia, le case delle mie sorelle, di mio fratello e le case di Marta.
Ci sono poi le case della memoria; tutte quelle che ho abitato e che appena posso vado a rivedere. In tutte queste c'è la sapienza dei nostri antenati. Ritrovo facciate e pavimenti ben disegnati, scale e spazi interni articolati e soprattutto rivedo i miei famigliari con le nostre tradizioni. Mi faccio, così, testimone della vita di persone che non ci sono più e di luoghi ora abbandonati o deturpati da costruzioni fuori scala che con la loro aggressività invadono il territorio. In tutte queste costruzioni riconosco un intimo legame tra chi le ha progettate e poi costruite e i loro abitanti.
Provo un'attrazione particolare per le case che hanno le finestre dei lati opposti simmetriche in modo che guardando la facciata si vede il cielo trasparire dai vetri. Ma troppo spesso accade che una cultura che dà per scontata la distruzione del preesistente, in nome di un progresso che è solo degrado, annulli luoghi e memoria. Purtroppo ho assistito e assisto all'estendersi inesorabile di un' attitudine molto diffusa quanto accanita tra gli addetti ai lavori: il piacere di lasciare ad ogni costo un segno indelebile. E questi segni di onnipotenza, di ricerca ossessiva di entrare nella storia riguarda la cosa, l'oggetto in via di progettazione e non le persone. Nella visione astratta di chi progetta - la cosa - l'essere umano con la sua storia non esiste. Neanche viene preso in considerazione.
La Liguria così lunga stretta e in questo particolare momento Genova con la sua ultima sciagura, testimoniano una incoscienza collettiva che si allarga, in questa Italia traballante, mal costruita, si dilata come il drago delle favole e divora l'esistente. Circola, da tempo, nell'indifferenza generale, una devastante dismisura tra soggetto e oggetto. Vivo con la costante sensazione che tutto si compia sopra le nostre teste o sotto i nostri piedi, comunque, sicuramente fuori di noi perennemente distratti e attratti da un altrove lontano.
Unico esempio positivo che io conosca, avvenuto nel secolo scorso, è l'incontro dell'architetta Marta Lonzi con il Comitato degli abitanti di Pietralata - periferia romana. Sono stata ospite di Marta sia a Roma che all'isola d'Elba. Era un periodo nel quale mi trovavo psicologicamente in stato confusionale e lei mi è stata di grande aiuto. Nei nostri incontri mi ha condotta per mano nella sua /nostra vita e i suoi progetti architettonici e urbanistici ne facevano parte in una visione ricca di esperienza, di relazioni e di coinvolgimenti. Marta è stata nel campo dell'architettura e in quello dei rapporti umani una rivoluzionaria. Non ho conosciuto altre amiche che, come lei, facessero coincidere la parola con l'azione. Con la semplicità e la chiarezza di chi le cose le vive con una sapienza e un'autenticità ben radicate nelle regioni dell'anima, ha compiuto il ribaltamento del pensiero del Movimento Moderno. Ha messo al centro del progetto la persona e non l'oggetto.
Gli abitanti di Pietralata, guidati da Marta hanno realizzato una serie di documenti che prendono il nome di Magna Charta nei quali "...si sono apertamente schierati per la realizzazione di una città reale, fatta di architetture vere, di edifici, di facciate, di volumi, di spazi, di strade, di piazze, di giardini e di parchi; cioè di forme urbane che hanno le loro origini nell'antichità, adattate, ampliate e rivificate per farle servire ai bisogni della nostra vita quale desideriamo che debba essere alla fine del secondo millennio. ..."(Marta Lonzi, Francesca Garavini, Roma è da salvare, 1999 Prototipi).
Come stanno ora le periferie? Male, grazie. In effetti la quasi totalità "delle persone che lì vivono sono infelici di abitarvi". In qualunque città ci si trovi le periferie sono tutte uguali, alcune ridotte per incuria e per interessi occulti in ghetti umani e in dormitori. A volte capita che i tetti degli edifici vengano sagomati per adagiarvi sopra i piloni di un ponte e a volte accade che i ponti crollino come è accaduto nella periferia di Genova il 13 agosto, poco prima di mezzogiorno...