Uno degli aspetti più ricorrenti in molti dei gesti e dei comportamenti rituali che caratterizzavano il complesso delle espressioni di cordoglio delle grandi civiltà religiose del Mediterraneo, era il costante ed esplicito richiamo al “sangue”, quasi che l'evento stesso della morte appena manifestatasi scatenasse la necessità di farlo scorrere, di renderlo a tutti visibile.
Inequivocabili sono le testimonianze che a tal proposito il mondo greco più di altri ci ha regalato: epica e tragedia confermano con dovizia di particolari come non solo fosse consuetudine che i congiunti del defunto e le professioniste della lamentazione si graffiassero le gote e gli avambracci fino a incidersi le carni, ma, nel caso di celebrazioni allestite per un personaggio illustre o per un eroe di guerra, anche come fosse in uso la prassi di compiere cruenti sacrifici e di porre poi i corpi delle vittime sulla pira accanto al cadavere dell'estinto, nonché di invitare i partecipanti a confrontarsi in una serie di violenti agoni che nulla avevano da invidiare ai reali scontri col nemico sul campo di battaglia; emblematico è il racconto della sacra ecatombe compiuta in onore di Patroclo, sul cui rogo vengono deposti montoni e buoi scuoiati, persino cavalli e cani, oltre ai corpi di dodici Troiani brutalmente decapitati per mano dello stesso Achille (Iliade, XXIII vv. 166-176), o il dettagliato ritratto del furore con il quale i più grandi campioni degli Achei si confrontano in estenuanti gare di pugilato (vv. 653-699), nella lotta cruenta (vv. 700-739), in duelli quasi mortali (vv. 802-825).
Fortemente dominati da quella che gli etnografi definiscono “ideologia del cadavere vivente”, tali riti accompagnavano il morto attraverso quella delicatissima fase di passaggio che gli consentisse di prendere definitivo congedo dal mondo dei viventi e di approdare serenamente alla sua nuova dimora nel regno di Ade, scongiurandone il ritorno sotto forma di incubo funesto o di minacciosa allucinazione, favorendone al contrario la regolare reintegrazione come spirito benevolo e protettore della comunità. Ma, indipendentemente dal fatto che ci si sfigurasse spargendo il proprio fluido vitale per il desiderio di rendersi irriconoscibili al trapassato e insieme anche di pagare pegno per la vita che ancora si conservava, o che fosse il fluido vitale di altri ad essere versato allo scopo di placare quell'anima in travaglio rievocando il tempo delle gloriose imprese comuni e suggellando così un'eterna comunione interiore, ad essere costantemente riconfermata era l'ancestrale percezione dell'inscindibile legame tra il “sangue” e i nodi essenziali dell'esistenza umana, e il conseguente riconoscimento del “rosso” come uno tra i primi colori funebri della storia dell'umanità.
Di ocra rossa si tingevano già in epoca preistorica i crani e le ossa dei defunti, di rosso l'Homo Neanderthalensis dipingeva le tombe dei familiari, rosso era il colore cerimoniale dei culti funerari di epoca neolitica, perché nulla fu più naturale del fatto che al rosso venisse associata una sorta di energia rivitalizzante che si tentava in qualche modo di trasmettere a coloro che ne erano ormai totalmente privi, un vero e proprio sostituto del sangue che regalasse la possibilità di continuare ad esistere, seppur in altra forma, seppur in altro luogo. Perché antica come l'uomo è l'intuizione del potere magico e simbolico dei colori, universale la consapevolezza della capacità che essi hanno di “veicolare” quei valori e quei significati che le società hanno sempre attribuito loro e che vanno ben oltre ciò che di essi la mera percezione sensoriale può restituire, tanto che sin dai tempi più remoti, quella che appariva come qualità esterna e quasi accessoria (gli stessi termini chroma in greco e color in latino indicavano originariamente qualunque rivestimento esterno, nonché la superficie del corpo umano, il suo incarnato), finì con l'essere immancabilmente interpretato quale strumento indispensabile alla conoscenza della natura stessa di ciò che essa designava. Presso gli Egizi (per i quali un'unica parola, Iwen, diceva insieme “colore” ed “essenza” delle cose), “arrossire” significava “morire”, i sarcofagi venivano ricoperti di teli rossi, rosse erano le vesti in tempo di lutto, mentre abiti rossi erano fatti indossare ai defunti anche nell'antica Roma.
Eppure, gli stessi Egizi avevano realizzato in candido alabastro il tavolo sul quale procedevano all'imbalsamazione del toro sacro adorato a Menfi e neppure l'antica Roma ignorava l'utilizzo di vesti bianche per le donne in lutto e per i cadaveri. E ancora: in Egitto nera era la testa di sciacallo o di canide con cui veniva raffigurato Anubi, protettore dei cimiteri e scorta dei morti nel loro viaggio verso l'Oltretomba, e nero era il bitume impiegato nei processi di mummificazione, cui lo stesso Anubi presiedeva; non diversamente, già i Romani in cordoglio facevano uso di toghe scure e addirittura neri pare fossero il vasellame e gli arredi del sontuoso banchetto funebre allestito in occasione della morte dell'imperatore Domiziano nel 96 d.C.
Accanto al rosso, infatti, il bianco e il nero costituirono per lungo tempo un'autentica triade archetipica, comune a moltissime civiltà, profondamente radicata nei miti di fondazione e nelle cosmogonie di tanti popoli, da Oriente a Occidente. Ma, prima ancora che il lessico cromatico delle lingue più primitive si arricchisse dei termini idonei a descrivere i bagliori e la potenza del fuoco, erano stati il bianco e il nero a tradurre ed esprimere la fondamentale opposizione tra luce e ombra, chiarore e oscurità, movimento e passività, di cui i primissimi uomini facevano costantemente esperienza; allo stesso modo era stata l'alternanza polare tra il bianco e il nero a dare vita a quella doppia matrice di benefico/malefico che è all'origine della valenza simbolica di ciascun colore e che i molteplici gruppi sociali nel corso della storia e in ogni parte della terra hanno inglobato in un proprio ordine di senso e di interpretazione della realtà.
Come nel rosso, dunque, si imparò a cogliere la manifestazione prima della vita tanto nel suo pulsare quanto nel suo spegnersi e successivamente lo straordinario potere creatore del fuoco insieme alla sua indomabile forza devastatrice, così accadde per il bianco che, se ai nostri occhi ha sempre rappresentato l'immagine privilegiata della luce intensa e del puro candore, nondimeno fu ed è tuttora anche indizio inconfutabile di morte; in alcune regioni dell'Africa o nella tradizione orientale di paesi come la Cina, la Corea e il Giappone, esso piuttosto rimanda principalmente a tutto ciò che è privo di peso, incorporeo e immateriale, è manifestazione di incolmabile vuoto e di inconsolabile assenza, è emblema del pallore spettrale dello stato agonico e delle nude ossa.
Al contrario, per noi la morte continua a tingersi del colore più inquietante, quello del quale cogliamo istintivamente la parentela con la paura e la notte, con il male e la sventura, ma del quale fatichiamo a percepire l'altra faccia. Nessuna traccia rimane nel nostro sentire della bivalenza originaria presente persino in questo che in un tempo remoto era stato il simbolo del Caos primordiale che in tante mitologie precedeva l'esplodere della Luce, che aveva raccontato i profondi abissi della Terra Madre che custodiva nel segreto misterioso del suo grembo i germi fecondi della vita (curioso che l'Egitto fosse noto anche con il nome di Kemet, “Terra nera” in ragione dello scuro limo lasciato dal Nilo in ritirata dalle sue esondazioni) e che forse sopravvive come flebile ricordo della cultura di un lontano Mediterraneo pre-patriarcale nei volti delle Madonne nere diffuse ancora oggi in tutta Europa.