Non pensavo mi accadesse di nuovo, eppure è successo. Ritenevo mi avesse già donato tutti i tesori del suo scrigno, eppure, in un momento di narcotico languore, è bastato che vi gettassi ancora uno sguardo, indolente, per scorgervi un bagliore, come se una piccola gemma dimenticata tra la polvere del fondo mi ammiccasse con malizia... ed ecco, l’incanto è ricominciato.
Ma partiamo dal principio: ho sempre letto poco e solo ciò che mi parlava già ancor prima di iniziarne la lettura, o perché attratto dalla statura dell’autore o per il fascino dell’argomento trattato, poche cose ma densissime, pregnanti e quindi elaborate e amate profondamente. Comunque sempre libri che parlavano, magari per metafore, di vicende di vita vissuta, di avventure reali.
Ho anche avuto, in effetti, lunghe digressioni filosofiche e mitologiche ma mai nulla che avesse a che fare con le fiabe. Sapevo che esistevano ma non vi ponevo interesse, di alcune conoscevo risvolti interessanti e i molteplici piani interpretativi come per Pinocchio o per Alice ma non mi attiravano. Naturalmente avevo sentito parlare anche del Signore degli Anelli di Tolkjen ma, anche se in realtà qualche lembo della mia giacca veniva attirato come accade alla lana quando passa vicino all’ambra, tosto mi scostavo, con la spocchia del pedante erudito che non ruba tempo alla vita vissuta o alla “cultura” per distrarsi con stolte fole.
Nelle mie digressioni letterarie in tema di mitologia e di storia delle tradizioni, avevo letto alcune opere di Elemire Zolla, uno degli autori più seri e appassionati del settore, capace di infondere vita fremente a temi e argomenti altrimenti freddi e distanti. In Zolla avevo riconosciuto e imparato ad amare un vero sapiente dei tempi antichi di grandissima autorevolezza e perciò degno di immenso rispetto. Ebbene qualche anno fa, vagando annoiato tra gli scaffali di una bella libreria del centro, mi cadde l’occhio sulla copertina di un grosso volume con bei disegni di alberi frondosi e padiglioni lontani.
Era, nella sua attraente veste editoriale, una nuova edizione del Signore degli Anelli, ne sfogliai incuriosito qualche pagina e mi accorsi con stupore che proprio il grande Elemire Zolla ne introduceva la lettura. Come era possibile? Quel Zolla di Che cos'è la tradizione si scomodava a parlare di una favola? Allora iniziai a leggere. Povero me! Ancora non sapevo che quella era la sua celeberrima, formidabile introduzione alla Trilogia di Tolkjen dove, nel suo stile appassionato di sapiente militante, apriva il sipario su quella che, come scoprii in seguito, era una delle storie più belle che mai fossero state scritte o narrate e anche io, come milioni di altri, vi venni inesorabilmente ed entusiasticamente risucchiato e passai al di là di quel sipario, entrai nel teatro e non mi sono più alzato dalle poltrone della prima fila.
Da allora, a lunghi intervalli, ho letto più volte il Signore degli Anelli e con esso tutte le opere dello stesso autore, meno celebri, ma propedeutiche all’immersione in quello che è un vero universo fantastico creato dalla colta fantasia del professor Tolkien. Come riporta Zolla in quella sua famosa introduzione, le fiabe, come la Trimurti, possiedono tre volti: uno mistico rivolto al soprannaturale, uno magico rivolto alla natura e infine lo specchio di scorno e pietà che offrono all’uomo.
Non parlerò del primo volto, troppo velato, e nemmeno dello specchio, ove mai come in questa fiaba ho guardato, ricevendo a paragone una triste e sconfortante immagine di me stesso. Voglio parlare del secondo di quei tre volti, quello rivolto alla Natura grazie al quale, per fortuna, si corregge tanto da renderla accettabile, quella bieca immagine in cui mi rivedevo nel suo limpido ma impietoso specchio. La Natura è infatti coprotagonista immanente in tutta l’opera di Tolkjen.
Nella mitologia del Signore degli Anelli la sua armoniosa bellezza, all’inizio della creazione, è la misura della perfezione nell’Opera Magna degli Dei all’origine dei tempi immemoriali, viceversa la sua disarmonica degradazione e progressiva decadenza, nel corso delle Ere successive, è la misura dell’insonne opera del Male in ogni sua manifestazione. Il potere salvifico e numinoso della Natura è qui simboleggiato principalmente dagli alberi e dalle stelle: all’inizio dei racconti, ancor prima che fossero creati il Sole e la Luna, erano due alberi mitici, dalle onomatopee celestiali: Laurelin e Telperion, che irradiavano luce con i loro fiori d’oro e d’argento a illuminare il mondo di beatitudine primeva dell’universo fantastico di Tolkien, sono ancora alberi meravigliosi i pilastri delle dimore degli Elfi, le creature che più di ogni altre incarnano la magnificenza e la forza della Primavera del Mondo, sono infine alberi parlanti, dotati di forza prodigiosa e della capacità di camminare, a proteggere le ultime foreste primordiali dalla cupidigia di Uomini e Nani, le altre stirpi viventi sulla terra.
Perché in questa favola la Natura, come nel nostro mondo, non è proprietà delle creature che la abitano ma è il Dono del Creatore ai suoi figli affinché, nella misura della loro perfezione, possano custodirla venerandone la Maestà in quanto manifestazione consustanziale di Dio stesso. La sottile malinconia che, anche nel momento della Vittoria vela la gioia dei protagonisti, consiste proprio nella consapevolezza che l’operato del Male ha inesorabilmente corroso la magnificenza indescrivibile della Creazione originaria come si accorge Frodo, il vero eroe della storia, quando, dopo travagli e peregrinazioni nelle terre selvagge, la ritrova per una volta giungendo nella dimora dell’ultima grande Regina Elfica rimasta sulla terra di Mezzo, qui l’immenso potere di lei ha consentito alla Natura di rimanere tale quale era nei Tempi Remoti all’inizio della Creazione: “Gli sembrava di essere volato giù da un alta finestra aperta su un mondo svanito. La luce in cui era immerso non aveva nome nella sua lingua... non vedeva colori ignoti al suo sguardo, ma qui l’oro e il bianco, il blu e il verde erano freschi e acuti, e gli pareva di percepirli per la prima volta e di creare per essi nomi nuovi e meravigliosi... Frodo si sentiva in una terra senza tempo, che non cambiava, non sbiadiva, non cadeva nell’oblio ... una volta ritornato nel mondo esterno, Frodo... avrebbe continuato a camminare su quella erba…”.
Ecco con le sue parole descrivere la nostalgia struggente per quella perfezione e armoniosa bellezza che sia che il Male vinca sia che venga sconfitto, svanirà per sempre dalla terra prendendo infine dimora nei nostri sogni per ricordarci sempre la grande bellezza onde veniamo. Le stelle infine. Prendendo commiato da lui la Regina Elfica Galadriel, il cui nome significa donna coronata di luce, regala a Frodo una “una piccola fiala di cristallo, che scintillava mentre ella la muoveva, e sprigionava raggi di luce bianca. “In questa fiala”, disse, “è prigioniera la luce della stella Earendil, imprigionata nelle acque della mia fontana. Splenderà ancor più luminosa, quando sarai immerso nella notte. Possano i suoi raggi guidarti nei luoghi oscuri, quando tutte le luci si spegnessero”.
Ecco, la Grande Natura che vive ormai solo nei sogni, la Perfezione Primordiale a cui alludono tutti i canti e le storie meravigliose sarà come quella fiala che brilla della luce delle stelle e che forse brillerà per noi quando saremo immersi nella nostra notte, quando tutte le altre luci si saranno spente.