La storia della letteratura occidentale inizia con un’andata e un ritorno. La prima è sostanzialmente costituita dall’Iliade e la seconda dall’Odissea. Il tema del ritorno ha poi caratterizzato parte della letteratura greca in maniera più o meno costante, per due motivi principali. Il primo, di carattere più strettamente pratico e artistico, è che il “viaggio di ritorno” è un buon modo per raccontare tanti episodi all’interno di un’unica, lunga storia: in questo modo aedi e rapsodi potevano svolgere al meglio il loro lavoro. Il secondo motivo è più storico e archeologico: i “nòstoi”, infatti, per quanto storie romanzate sono in realtà una preziosa testimonianza delle migrazioni di popoli protogreci che nel corso del tempo si sono stanziati prima nella Grecia insulare (civiltà minoica) e poi in quella continentale (civiltà micenea) e aiutano in parte a fare supposizioni storiche su un periodo ancora privo di fonti dirette.
Il nòstos è dunque una strada principale all’interno della letteratura greca ed è stato un tema che ha inciso talmente tanto la cultura occidentale che da esso è derivato un termine, la “nostalgia”. È importante notare come la nostalgia sia comunemente intesa come la nostalgia di casa, il tutto per un motivo molto semplice, e cioè che il viaggio di ritorno per eccellenza lo ha fatto un eroe che non aveva altro desiderio che rivedere la sua casa, la sua patria e la sua famiglia. Chiaramente, stiamo parlando di Odisseo e del suo ritorno a Itaca.
Concetto fondamentale, dunque, quello del ritorno. E nella civiltà greca lo è al punto tale che non è solo un ritorno fisico ma anche mentale: tornare a casa col pensiero significa avere davanti agli occhi un costante punto di riferimento, sentirsi protetti da una presenza sicura e forte. Questo lo vediamo in maniera netta nel modo in cui i Greci hanno esercitato la colonizzazione: là dove venivano fondate colonie, esse nascevano e crescevano all’ombra della madrepatria. Venivano importate le divinità e le tradizioni. Le architetture, pur sapendosi fondere con gli elementi locali, mostravano tra le architravi il sapore di casa e gli abitanti portavano con sé la lingua parlata attorno al proprio focolare, perché all’epoca non esisteva un greco universale e identico in ogni polis dell’Ellade, ma ogni città - ogni regione – aveva un suo particolare dialetto che si caratterizzava come un elemento identitario. Come del resto accade oggi.
Dalla madre patria giungevano le mercanzie da vendere ed esportare nel mondo, e tali materie prime non erano soltanto tangibili e/o edibili ma anche immateriali come conoscenze, tecniche di pittura e scultura, capacità vascolari e artigianali. La connessione colonia-patria era un legame così forte al punto tale che in archeologia la differenza cronologica tra i due fattori è uno strumento indicativo. Facciamo un esempio pratico e consideriamo la tecnica della ceramica dipinta a figure rosse. Tale tecnica inizia a diffondersi intorno al 530 a. C. ad Atene, sostituendo in maniera graduale ma definitiva quella a figure nere; questo significa che la diffusione di suddetta ceramica nelle colonie di Atene giungerà con un certo ritardo, cosicché in un’eventuale mancanza di elementi certi per la datazione di un vaso a figure rosse trovato a Thurii (colonia ateniese posta nei pressi di Sibari), possiamo supporre un “terminus post quem” (espressione tecnica che in archeologia indica il momento dal quale inizia a esistere qualcosa) intorno al 500-490 a.C., vale a dire trenta o quarant’anni dopo la diffusione della tecnica nella madrepatria.
Il nòstos, come abbiamo anticipato, permea la letteratura greca come non mai. Il suo eroe e campione per eccellenza, Odisseo, ne è ossessionato per tutto l’arco del poema che porta il suo nome. Noi reduci di Dante e del suo XXVI canto dell’Inferno siamo abituati a un Ulisse smanioso di conoscere, di vedere e di andare nei luoghi mai visitati dall’uomo. L’esplorazione e la scoperta ce l’ha nel sangue e col suo sangue stesso paga il prezzo della sua curiosità. Non è questo però l’Odisseo omerico, che è invece un eroe stanco, in particolare stanco del viaggio, stanco della lontananza. L’unico desiderio che lo pervade è quello della casa. Ambisce al suo letto nuziale scavato nel tronco di un ulivo più dell’ospitalità di re, maghe e divinità. Difatti, contrariamente a quanto si pensi, per tutto il poema Ulisse non cerca quasi mai l’avventura e difficilmente si mette alla scoperta di qualcosa per soddisfare la sua curiosità: sono le avventure e gli incidenti a capitargli addosso, non lui a cercarli. Uniche due eccezioni di questa regola sono l’incontro col ciclope e l’esperienza delle sirene.
Ma non è solo il conquistatore di Troia a desiderare la casa e intraprendere il nòstos: nel terzo e quarto libro dell’Odissea, infatti, si viene a conoscere di altri eroi che hanno intrapreso il ritorno a casa dopo la guerra di Troia. Nestore, Aiace Oileo, Teucro, Diomede, Filottete, Idomeneo, sono tutti generali greci hanno affrontato peripezie più o meno odissiache prima di giungere in patria, semmai l’hanno raggiunta. Particolarmente sfortunato fu Agamennone, che tornato a casa venne ucciso a tradimento dalla moglie Clitennestra. Ma ognuno di questi ritorni è importante, perché tutti, nessuno escluso, dà vita a una storia, un racconto, un mito che si dipana a volte di generazione in generazione (come è appunto il caso di Agamennone, la cui vendetta per la morte sarà a opera del figlio Oreste (e questa storia darà vita all’unica trilogia completa di tragedie che ci è pervenuta, l'Orestea di Eschilo).
E osservando quanta presenza, quanto spazio e importanza, abbiano i ritorni all’interno della letteratura greca (sappiamo che esisteva addirittura un’opera intitolata appunto “Nòstoi”, attribuita a Eumele di Corinto e purtroppo non pervenutaci) non si può fare a meno di constatare che il viaggio, ivi compreso del suo ritorno, non va solamente compiuto ma anche raccontato, altrimenti resta chiuso in se stesso.