Nella Grecia antica le piante attrassero lo sguardo di poeti, viaggiatori e geografi, medici e filosofi, che di volta in volta colsero e rilevarono aspetti differenti. Questi diversi sguardi trovavano tuttavia un punto d'incontro nel riconoscere nelle piante un termine di riferimento essenziale per comprendere la natura stessa del cosmo e dell'uomo e della sua collocazione nell'universo. Ad esse non si guardava come ad entità totalmente estranee e inaccessibilmente lontane, figure simbolo di un'incolmabile diversità. Si assisteva al contrario ad un recupero della loro condizione e del loro modo di nascere e di vivere, sia sul piano delle similitudini e metafore poetiche, sia sul piano dell'osservazione medica o storica e della riflessione filosofica. Anche quando erano studiate nella loro veste di componenti del mondo naturale, si tentava di trovare punti di convergenza con altre componenti del mondo, in particolare con animali e uomini. In un certo senso le piante apparivano come espressione per eccellenza della natura nella sua capacità di generare e far crescere, data anche la parentela stretta nella lingua greca fra il termine physis, che traduciamo abitualmente con 'natura', e il termine phyt¢n, che designa in generale tutto ciò che spunta o germoglia.
Esso può di volta in volta rinviare ad alberi, arbusti, erbaggi, ortaggi, granaglie, ma data l'assenza di una classificazione più precisa prima delle opere botaniche di Teofrasto, generalmente si usa la denominazione non specifica e più generale di 'piante'. Esse si presentavano sotto una molteplicità di aspetti, ora in veste di entità che popolavano la storia cosmica e il paesaggio umano, capaci di accrescersi e riprodursi, ora in veste di ingredienti emblematici di tipi di vita filosofica come nei Pitagorici e nei Socratici, ora in veste di entità impiegate dall'uomo per nutrirsi o per curarsi o anche per avvelenare. Erano di volta in volta semi, radici, tronchi, foglie, frutti a essere assunti come parti reali di corpi viventi studiati nel loro naturale formarsi e svilupparsi oppure come metafore o corrispondenti analogici di fenomeni e processi interni al macrocosmo o riguardanti il microcosmo umano e in particolare l'educazione dell'uomo intesa al modo di una coltivazione assistita.
Aristotele fu il primo ad attribuire un'anima alle piante. Egli faceva ricadere lo studio dell'anima nell'ambito della filosofia della natura in quanto indagine sui corpi dotati di movimento e mutamento; tra essi erano certamente inclusi anche i corpi viventi, caratterizzati anzitutto dalla capacità di crescere e riprodursi da sé. Ciò significava per Aristotele che essi erano dotati di quel tipo basilare di anima che è l'anima nutritiva. Ma anche le piante sono manifestamente dotate della capacità di crescere e riprodursi da sé; quindi anche le piante sono esseri viventi animati, in possesso di quella funzione psichica che presiede alla crescita e alla riproduzione anche in animali e uomini.
Aristotele era così in grado di costruire una linea di continuità tra i vari segmenti del vivente, la quale giustificava la possibilità di una transizione senza salti dalle piante agli animali e agli uomini e legittimava l'istituzione di comparazioni e analogie. All'interno di questa continuità naturale, le piante venivano ad occupare tuttavia un posto proprio e specifico. Pur annoverandole tra gli esseri animati, Aristotele poneva una linea di demarcazione netta tra esse e gli altri esseri viventi. Il confine era costituito dalla funzione locomotoria e a maggior ragione dalla funzione sensitiva e intellettiva. Diversamente dagli animali superiori e dagli uomini, le piante per Aristotele non avevano né movimento, né capacità di percepire o sentire piacere, dolore e desideri, né tanto meno intelligenza, che è prerogativa dei soli uomini. Con ciò Aristotele riteneva di portare a compimento antiche questioni ancora aperte, mostrando in che senso si poteva parlare di un'anima specifica delle piante.
Aristotele si trovava davanti un ampio spettro di risposte al problema se e a che titolo le piante potessero essere considerate esseri viventi e per quali tratti si differenziassero da animali e uomini. Si andava dalla negazione alle piante di qualunque tipo di attività psichica all'attribuzione ad esse in certi casi delle stesse funzioni tipiche di animali e uomini, ossia percezione e pensiero. Empedocle, per esempio, aveva fatto riferimento solo all'anima umana e alle sue reincarnazioni successive in corpi non umani, tra cui forse erano comprese anche le piante. In Platone la suddivisione dell'anima umana in parti tra loro distinte consentiva di attribuire caratteristiche psichiche anche ad esseri di livelli inferiori e perciò anche alle piante, che apparivano così dotate di funzioni proprie.
Ma Platone non sembrava neppure escludere che esse fossero dotate di una qualche forma di sensibilità. Proprio la possibilità di stabilire analogie tra i diversi domini della natura forniva anche ad Aristotele la chiave della sua soluzione. In Aristotele compare anche la metafora della pianta come uomo a testa in giù... Nonostante invitasse a fare un uso limitato di metafore nella prosa filosofica, Aristotele stesso non disdegnava talvolta di servirsene. Quella della pianta come uomo a testa in giù nasceva dall'istituzione di un'analogia di funzione che egli riteneva di poter individuare tra uomo e pianta. La funzione in questione era appunto la funzione nutritiva. L'assolvimento di essa richiedeva nella pianta come nell'uomo il possesso di organi preposti all'assunzione e all'assimilazione dell'alimento. Nell'uomo l'alimento passa attraverso la bocca che è parte della testa; nella pianta attraverso le radici.
Aristotele parlava della pianta come un uomo capovolto, con la testa conficcata nella terra dove la pianta ha le sue radici. La metafora ricorreva anche nel Timeo di Platone, suo maestro, ma con segno rovesciato. Platone muoveva dalla considerazione della testa dell'uomo come sede dell'intelligenza e dell'anima intellettiva. Nella statura eretta egli vedeva riflettersi la condizione più appropriata ad esprimere il collegamento con la dimensione del celeste e del divino, garantito all'uomo dal possesso di intelligenza.
Perciò per Platone era piuttosto l'uomo che poteva essere assimilato ad una sorta di pianta celeste, con le radici sospese al luogo dal quale discende in lui l'intelligenza, ossia l'alto, anziché saldamente conficcate nella terra. Tra gli animali solo l'uomo ha statura eretta. La grande quantità di calore posseduta dal corpo tende, per la sua natura leggera, a portarsi verso l'alto e la testa serve come luogo di raffreddamento. Via via che ci si allontana dalla specie umana e dalla statura eretta, il calore e la leggerezza decrescono e i corpi si vanno appiattendo sulla terra. Il "principio psichico" si sposta verso il basso e viene a trovarsi in posizione capovolta rispetto a quella dell'uomo. L'alto e il basso (che per Aristotele non sono relativi, ma assoluti) si invertono e la testa dell'uomo è là ove le piante hanno le radici. Le piante sono erette come gli uomini, ma hanno la testa conficcata nella terra. Con la loro inamovibilità rispecchiano l'immobilità della Terra che è al centro dell'universo.
La metafora “uomini capovolti” riferita alle piante ha avuto una storia plurisecolare, con adattamenti diversi in contesti differenti, spesso con richiami più insistiti alla versione platonica che alla versione aristotelica. Così per esempio in Rabelais alla condizione della statura eretta, tipico prodotto della Natura, che dà all'uomo lo slancio verso l'alto e il divino, si contrappone la condizione dell'uomo che si rende simile alla natura delle piante e vive alla maniera di un "albero rovesciato", con i capelli al posto delle radici e le membra al posto dei rami.
Anche Jonathan Swift, in una breve composizione satirica del 1703 intitolata Meditazione su un manico di scopa, vedrà in esso la rappresentazione figurata di un albero che sta in piedi sulla propria testa, mentre una volta era un albero fiorente con i rami protesi verso l'alto. Ma che altro è un uomo se non un "essere capovolto", con le facoltà animalesche che sempre gravano sulla facoltà razionale e la testa al posto dei talloni a strisciare sulla terra?
In pieno Settecento in uno scritto dal titolo significativo, L'uomo pianta, Julien Offray (o Offroy) de La Mettrie respingeva l'idea che l'uomo fosse "un albero rovesciato", nel quale il cervello sarebbe la radice. Egli riteneva che la pianta si sviluppasse e crescesse nello stesso senso e direzione dell'uomo, natura nei rispettivi processi di crescita; su questo fondamento poggiava l'esistenza di precise analogie tra parti delle piante e parti della specie umana, uomini e donne. Ma da Aristotele La Mettrie sembrava recuperare la demarcazione tra piante e animali e uomini in base alla presenza di locomozione, sensibilità e intelligenza: le piante fanno risplendere i nostri prati, ma muoiono come vivono senza accorgersene, perché non provano piaceri e dolori. In ultima istanza le piante non avevano altra anima se non il calore che dava loro vita.