Nel corso dei mesi estivi appena trascorsi, non solo studenti, ma anche docenti e cultori delle materie classiche hanno avuto l'opportunità di prendere parte ad una serie di esperienze decisamente fuori dal comune; accanto al pullulare di lezioni e di corsi diurni, infatti, il territorio nazionale (e non solo...) ha visto moltiplicarsi il numero di veri e propri Campus nei quali non è stata la lingua universale di oggi ad essere oggetto di uno studio mirato e intensivo, bensì le lingue universali di un tempo: non l'inglese, dunque, ma il latino e in alcuni casi persino il greco antico!
Per citarne alcuni, Scholae Aestivae differenziate per la durata dei vari moduli e per il livello di preparazione dei partecipanti si sono alternate dal 25 giugno al 19 agosto presso Villa Falconieri (Frascati), sede della scuola di alta formazione umanistica Accademia Vivarium Novum; il centro di studi classici GrecoLatinoVivo ha a sua volta organizzato una Villa Aestiva in Agris Ariminensibus sulle colline della riviera romagnola dal 17 giugno al 1 luglio per i ragazzi dai 14 ai 18 anni, mentre una Schola Aestiva Latina Urbinatensis in provincia di Pesaro Urbino ha coinvolto dal 25 agosto al 1 settembre adulti e universitari; addirittura presso la sede dell'Università della Giordania ad Amman si sono recati, invece, coloro che hanno aderito all'iniziativa promossa dall'Istituto Italiano di Studi Classici.
Un modo senz'altro originale di trascorrere quel periodo di “vacanza” che anche da un punto di vista strettamente linguistico sembrerebbe piuttosto rimandare al "non esserci" di qualcosa, che parrebbe evocare una mancanza e definire un'assenza, dire a chiare lettere la temporanea sospensione di tutti quegli impegni che abitualmente danno indirizzo e forma al nostro vivere; eppure, le origini insospettabilmente remote di ciò che noi comunemente definiamo “ozio”, rivelano qualcosa di molto diverso.
Nell'antica Roma, infatti, era il tempo degli affari commerciali e dei pubblici doveri (politici, professionali, militari o religiosi che fossero) ad essere definito in negativo rispetto a quello riservato ad attività che, pur avendo un'importante ricaduta in ambito civile, rimanevano confinate in un contesto del tutto privato. Negotium, dunque, come negazione di quell'otium che, se nei primi secoli della storia dell'Urbe era stato semplicemente inteso come spazio della non-occupazione e dello svago, finì poi per essere investito dai grandi maestri del pensiero di un ruolo essenziale alla stessa formazione del buon civis; nelle riflessioni di Cicerone, di Orazio e Ovidio, ma soprattutto di Seneca esso si trasformò in un'occasione di profonda meditazione, di cura della propria saggezza attraverso lo studio e la contemplazione, di autentica ricerca di sé. Allo stesso modo, il greco definiva il “momento del lavoro” come ascholia, come sottrazione di quella scholè della quale risulta difficile comprendere la parentela con la nostra “scuola” e che pure individuava quella condizione di distacco da ogni costrizione esterna che sola poteva predisporre l'animo all'ascolto e all'apprendimento.
Che siano stati, allora, quegli studenti, quei docenti e quei cultori della classicità ad aver concretamente realizzato ciò che la stagione del ritiro e del riposo era stata originariamente pensata per essere? Ad aver dato pieno compimento a quella vacatio che, come ricorda il grande antropologo e latinista Maurizio Bettini, descriveva uno stato di “libertà per sé” e che in nulla poteva dirsi affine ad una piatta inertia (da intendersi etimologicamente come carenza di “ars”, di qualunque abilità o moto d'ingegno) o ad un'indolente desidia (ossia un mero “stare seduti”)?
Di sicuro tale è stato il motore che ha ispirato l'ideazione di questi soggiorni alternativi, nel corso dei quali sono state adottate quelle stesse tecniche d'insegnamento che il bisogno di un profondo rinnovamento nella didattica delle discipline umanistiche mette da anni al centro di un intenso dibattito, le stesse che si radicano nelle metodologie impiegate già in epoca umanistica e che continuano ad essere fedelmente ritagliate sulle modalità con cui il nostro cervello apprende abitualmente un qualunque idioma parlato. Non è, del resto, la creazione di improbabili e anacronistici latinofoni e grecofoni l'obiettivo del ricorso all'utilizzo vivo e attivo delle lingue antiche; piuttosto, il desiderio di regalare, insieme all'acquisizione di una serie di competenze sintattico-morfologiche e lessicali comunque indispensabili a chi desideri accostarsi ai testi del passato nella loro forma originale, la possibilità di riscoprire la sorprendente vivacità e l'inesauribile ricchezza della cultura straordinaria di cui quei testi continuano a dare testimonianza; la volontà di riaccendere la scintilla di quell'interesse (ancora una volta dal latino inter-sum, “sono dentro”, “sto nel mezzo”) che, troppo spesso sopito tra i banchi di scuola, rimane l'unica possibile via d'accesso alla riscoperta degli inscindibili legami che quel mondo così lontano continua ad intrecciare con le esistenze di noi tutti.
È del giugno appena trascorso – curiosa coincidenza! – la pubblicazione dell'ultimo lavoro di uno scrittore un po' sui generis che a questa capacità di lasciarsi davvero coinvolgere si è interamente votato, diventando a sua volta irresistibilmente coinvolgente per i propri lettori. Autore del successo internazionale Nella foresta siberiana (per la cui stesura si era trasferito dal febbraio al luglio del 2010 in una capanna sulle sponde del lago Bajkal), Sylvain Tesson, 46 anni, di origine francese, questa volta ha scelto di trascorrere un mese in una torretta di guardia sull'isola di Tinos di fronte a Mykonos a strettissimo contatto con la natura delle Cicladi e di immergersi lì in un'attenta lettura dell'Iliade e dell'Odissea, nella convinzione che solo vivendo da vicino la loro geografia gli sarebbe stato possibile penetrarne davvero l'anima. Il risultato? Un'estate con Omero che è insieme un diario di viaggio e un saggio di letteratura, a tratti quasi un romanzo, ma soprattutto un'appassionata dichiarazione di amore incondizionato per il genio di colui che ha saputo infondere ai propri versi una forza e una bellezza ineguagliabili.
È probabile che Tesson non abbia mai conosciuto il professor Bettini, come è probabile che non abbia mai avuto modo di leggere nessuno dei suoi scritti; di certo, non conosce la lingua di Omero. Eppure, è a dir poco stupefacente l'abnegazione con la quale pare aver raccolto l'invito che dalle pagine di uno dei suoi ultimi lavori l'illustre docente senese rivolge incalzante agli uomini e alle donne del nostro tempo, affinché non smettano di accostarsi ai classici (quand'anche non fosse possibile in altro modo, anche solo in traduzione), tenendoli così vivi e consentendo loro di continuare a raccontarsi, imparando a propria volta a diventare sempre più cittadini dell'oggi anche attraverso il prezioso e costante confronto con i cittadini di ieri, con la loro innegabile alterità e la loro altrettanto innegabile vicinanza. A che servono i Greci e i Romani? è il titolo di questo breve, ma intenso libello dato alle stampe lo scorso anno; un titolo, ma anche una denuncia della deriva economicista di una società nella quale persino la cultura, la ricerca e la creatività intellettuale vengono troppo spesso piegate alla logica dell'utile immediato e quantificabile, e che ora più che mai avrebbe invece bisogno di riscoprire la pazienza e la lentezza, il valore di quei frutti che diventano tanto più preziosi quanto più si lasciano attendere, l'indispensabile apporto di quella humanitas che gli antichi ritenevano capace di sconfiggere la brutalità dei costumi e dei pensieri, e che ora come allora ogni essere umano dovrebbe necessariamente possedere per potersi dire autenticamente tale.