Nel XII canto dell’Orlando Furioso Ludovico Ariosto trasporta i suoi lettori in un antro nascosto. Qui è tenuta prigioniera Isabella, una bellissima dama affidata alla custodia di una vecchia carceriera al soldo di una banda di briganti. A questa megera l’autore riserva un ritratto dai caratteri caricaturali, ben lontano dai contorni dei limpidi personaggi cavallereschi che si muovono sul palcoscenico del suo poema. “Femmina antica”, la definisce, e ne rivela l’identità:
“Gabrina è il nome di costei, che nacque sol per tradir ognun che in man le cada.”
Ha alle spalle una storia di subdole trame e torbidi delitti: è una moglie fedifraga, un’avvelenatrice, “nido di tutti i vizi infandi e rei”. Ariosto la chiama “strega”, ma Gabrina interpreta piuttosto lo stereotipo letterario della vecchia viziosa maestra di malizie, attinta alla tradizione misogina dalla satira e dal romanzo classico. Il poeta non ha moti di pietà per questa figura: Gabrina sembra interpretare il proprio ruolo quasi per opposizione dialettica al modello ideale di gentilezza e nobiltà d’animo che è la cifra del femminile cavalleresco, forse allo scopo di valorizzare per antitesi la leggiadria di Isabella.
Molti critici hanno riconosciuto in questa figura un’invenzione anomala nella creazione dell’Ariosto, che è varia e multiforme quanto prevedibile nel proporre schemi fissamente legati al genere letterario. La vecchia porta un nome che non compare in nessuno dei romanzi della letteratura bretone o carolingia, a cui l’autore attingeva per la sua materia, e nemmeno nella novellistica popolare; un diminutivo di Gabriella, una variante di Gabriellina, tratta dall’onomastica del tempo. Il personaggio presenta tratti di realismo che sembrano attinti dalla vivacità del quotidiano: è una fattucchiera comune, di quelle che a cavallo fra il Trecento e il Quattrocento cominciavano a solleticare l’attenzione dei tribunali: sospettate di maleficio ben prima della grande stagione dei roghi, spesso semplici empiriche, ree di praticare la divinazione.
Indagando a ritroso la filogenesi letteraria di questo personaggio, alcuni commentatori coevi all’Ariosto, dopo avere interrogato un paio di parenti del poeta, scoprirono che una donna con quel nome era realmente esistita, circa un secolo prima, e che le vicende che l’avevano coinvolta ebbero a lungo grande risonanza nel ferrarese e nel reggiano: sostenevano che nella storia di Gabrina il poeta alludesse a una “rea femina de’ suoi tempi”, Gabrina degli Albeti, vissuta a Ferrara nella seconda metà del Trecento e processata nel 1375.
Dalle carte processuali risulta che questa Gabrina, che quasi certamente proveniva da una famiglia di buona condizione sociale, fu ufficialmente perseguita come eretica. Spesso era questo il reato imputato alle donne sospettate di stregoneria, in tempi ancora immaturi per una normativa giuridica specifica. Negli atti viene definita mulier malefica, incantatrix, apistrizatris, cioè manipolatrice di “pistrizia”: letteralmente pasticci, intrugli. Una venditrice di illusioni, insomma. Gabrina, in realtà, è un’innocua curatrice, un’operatrice magica a cui le donne si rivolgevano confidando paure e fragilità: il desiderio di legare a sé l’uomo amato o di proteggere la salute dei propri cari, la necessità di sapere come evitare una gravidanza indesiderata, la richiesta di aiuto per placare un marito violento. Per ogni domanda aveva una risposta, un giusto farmaco o un rituale conveniente.
Ma Gabrina non poteva sottrarsi allo sguardo scrutatore del controllo ecclesiastico. Innanzitutto perché somministrava i suoi intrugli accompagnandoli con la magia di formule sussurrate; inoltre perché faceva uso del santo crisma, in realtà semplice olio d’oliva, simulando in modo blasfemo l’unzione sacramentale. Altri riti di sapore precristiano permettevano di attirare o respingere l’amore. Per esempio, a un uomo che soffriva di impotenza prescriveva un rimedio stupefacente: procurarsi una spada con la quale fosse stato compiuto un omicidio e sistemarla nel letto prima di dormirvi con la propria donna. A un’altra paziente insegnò un rito per riavvicinare il marito infedele, che ha tutto il sapore di un’arcaica cerimonia di magia pagana. La invitò a recarsi in un luogo segreto rivolgendo, in ginocchio e nuda, una preghiera alla stella più grande, ed esclamando: “Ti adoro, grande Diavolo!”, e poi a strizzare la propria camicia al fine di torcere, per analogia, anche il cuore dell’amato. Ma Gabrina attingeva i suoi saperi soprattutto dalla tradizione erboristica popolare, acquisita oralmente ed empiricamente sperimentata: se una sua paziente era colpita da malocchio prescriveva succo di zucca selvatica; se era vittima di un compagno violento, le consigliava di somministrargli un infuso di camomilla.
Un aspetto interessante che emerge dalla documentazione disponibile riguarda la percezione distorta della trasmissione del sapere femminile e il senso di pericolo sociale associato ad esso. Proprio questo sembra essere il dettaglio che nel corso del processo aggravò la posizione di Gabrina, ovvero il fatto che non si limitava a “fare”, ma “insegnava a fare”, moltiplicando il diffondersi di pratiche pericolose per l’ortodossia.
“Insegnò a molte persone e le istruì su come compiere magie con erbe, incantesimi, gesti, segni proibiti e immorali, malefici, formule e intrugli”.
Le carte istruttorie sono costellate da una ripetizione insistente dei verbi docuit e instruxit, “insegnò” e “istruì”, un leitmotiv dell’azione di Gabrina, che evidentemente era solita trasmettere i suoi saperi ad altre donne con generosità e spirito solidale. La sua punizione fu crudelmente esemplare: non la morte, ma la marchiatura a fuoco e l’amputazione della lingua, irriducibile e definitiva riduzione al silenzio. Per lei, quasi certamente analfabeta e dunque impossibilitata a tramandare i propri segreti in forma scritta, la sentenza assunse il senso di un’uccisione simbolica. Per le altre come lei, di un monito sinistro.