È possibile immaginare qualcosa di più lontano dall'esistenza austera di un cittadino romano del I secolo a.C. del mondo patinato e sfavillante dell'alta moda internazionale così come viene rappresentato nel film Il diavolo veste Prada, ispirato all'omonimo romanzo di Lauren Weisberger e divenuto un autentico cult cinematografico grazie alla strabiliante interpretazione di una superba Meryl Streep nei panni di Miranda Pristley, dispotica direttrice di una delle riviste più prestigiose del settore? Probabilmente no. Almeno fino a quando la sopracitata tirannica virago non prende parte a una lussuosissima sfilata di beneficenza scortata dalle sue fedeli assistenti che con impeccabile tempismo non mancano di suggerirle l'identità degli ospiti che le si fanno incontro per salutarla. Prassi consolidata per i nobili e i senatori dell'Urbe era, infatti, quella di farsi accompagnare da schiavi appositamente istruiti che in occasione di cerimonie e di feste ufficiali (ma soprattutto in tempo di campagna elettorale!) evitassero loro l'imbarazzo di trovarsi di fronte a qualcuno che non fossero immediatamente in grado di riconoscere e di apostrofare con la necessaria disinvoltura.
Comunemente noti con il titolo di nomenclatores, chiaramente dovuto al fatto che il loro ruolo consisteva appunto nel “chiamare i nomi”, essi erano tuttavia curiosamente conosciuti anche con il singolare epiteto di fartores, lo stesso riservato alle figure professionalmente preposte a ingrassare gli uccelli o la selvaggina destinati alle sontuose mense dei signori, o a insaccare carne trita nel budello del maiale. “Farcitori”, dunque, che alla stregua di cuochi e salsicciai si preoccupavano di ricolmare dei ragguagli necessari i padiglioni auricolari dei propri padroni i quali, dal canto loro, avevano il preciso dovere di predisporli all'ascolto, perfettamente sgombri e ripuliti da ogni possibile pericolosa distrazione.
È così che nel prologo del plautino Trinummus il personaggio di Dissolutezza apostrofa il pubblico, invitandolo a prestare attenzione alle sue parole, a offrire appunto “orecchie vuote” (vocivas auris dice al v. 11, evocando istantaneamente attraverso l'uso di quell'arcaico sinonimo di vacuus i lemmi voco e vox); ed è ancora Plauto a far rivelare dall'ancella Sofoclidisca che si avvicinerà a Tossilo e “gli caricherà le orecchie con ciò che le è stato raccomandato di riferirgli” (Persa, atto II, scena I, v. 15). Come puntualmente illustrato dal grande Maurzio Bettini in una delle sue innumerevoli ricerche, è principalmente all'interno della commedia che è possibile rintracciare frequenti e gustosissimi esempi di questa divertente metafora, per la quale è verosimile ipotizzare proprio un'origine comica.
Ma non è tutto. Dopo aver ribadito al proprio servo la necessità che egli prepari la “casa delle sue orecchie” in modo che sia opportunamente libera e ricettiva (Plauto, Pseudolo, atto I, scena V, v. 55 vocivas aedis aurium), il vecchio Simone continua ingiungendogli di farsi “memore di quanto promesso” (atto I, scena V, v. 68 promissi memor). Non solo, infatti, l'efficacia della comunicazione già al tempo era di frequente messa in relazione con un'adeguata pervietà dei condotti uditivi (che la nostra stessa lingua suggerisce di “aprire bene” - se non addirittura di “stappare” - quando si renda indispensabile il passaggio di nozioni ritenute di vitale importanza), ma tutto questo intratteneva un legame ben più sostanziale (seppur meno intuitivamente comprensibile per noi moderni) con le complesse dinamiche del ricordo; in un'epoca ancora fortemente improntata alla trasmissione orale di ogni forma di sapere, accanto al cor che l'anatomia simbolica degli antichi riconosceva quale spazio della coscienza e della consapevolezza di sé (e con il quale il verbo “ri-cordare” enuncia il ristabilirsi di un rapporto) e alla mens intesa come vero e proprio archivio di eventi e sensazioni (e della quale rimane traccia in termini come “ram-mentare” o di contro “a-mnesia”), era in special modo l'orecchio, in qualità di canale ricettivo degli stimoli uditivi, ad essere considerato quale luogo primario di stoccaggio di tutte le informazioni che a quegli stimoli si accompagnavano e, dunque, sede privilegiata di conservazione delle corrispondenti tracce mnemoniche.
Scrive Plinio che, toccando il lobo dell'orecchio a qualcuno, gli si faceva memoria di recarsi in tribunale a fare da testimone (Naturalis historia XI, 251); è in questo modo che il povero Orazio racconta di essere stato salvato un giorno dalle fastidiose chiacchiere di un seccatore (Satire I, 9, vv. 75-77), mentre fu Apollo in persona a richiamare così Virgilio alla composizione della poesia bucolica (Ecloghe VI, vv. 3-4). Pensiamoci la prossima volta che “tireremo le orecchie” a qualcuno, per augurargli un buon compleanno o anche per dargli una simbolica strigliata... lo faremo con la nuova consapevolezza di aver avuto dei predecessori di tutto rispetto!