Il “solito” Goethe nel celeberrimo Viaggio in Italia raccontava la Trinacria così: “L’Italia senza la Sicilia non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto”. Più di recente un altro autore eccelso, l’israeliano Abraham Yehoshua, ha sottolineato che “La Sicilia contiene le memorie dei romani, dei musulmani, dei cristiani e degli ebrei. La Sicilia è vicina anche geograficamente al nord Africa. La Sicilia può essere la Bruxelles del Mediterraneo”.
Terra di transito e sosta di numerosi dominatori; perimetro di coste scintillanti e parchi e oasi protette; teatro di mitici passaggi narrati da Omero; coacervo di profumi, odori e sapori che condensano l’essenza del Mediterraneo. Si potrebbe proseguire per righe e righe cercando di sintetizzate l’identità di questa isola, se non ci venisse in aiuto l’arancina. La magica, gustosa, inimitabile sfera dorata grazie agli ingredienti che la compongono è la suprema sintesi: toma, formaggio fresco portato dai greci; riso con zafferano, un regalo degli arabi; ragu, influenza dei francesi; pomodoro, aggiunto dagli spagnoli. Dice il cuoco: «Ognuno è approdato qui, c’ha messo qualcosa, se n’è andato e noi ci siamo tenuti tutto. Poteva essere un’accozzaglia, invece questa terra è solo una perfetta mescolanza d’imperfezione – nella cucina e nell’architettura - perché tradizione e innovazione si scontrano, si mettono in discussione e alla fine si fondono diventando un’irrinunciabile somma di biddizze», racconta Ciccio Sultano, chef due stelle Michelin e patron con Gabriella Cicero del Duomo e dei Banchi a Ragusa Ibla. La Sicilia, d’altra parte, come ha affermato Gesualdo Bufalino “soffre di un eccesso d’identità”, che nelle mani e nella testa di un cuoco come Sultano “rischiano” però di esprimersi tutte.
«Non faccio né un discorso campanilistico né passatista: la Sicilia - spiega Sultano - è il centro, per ragioni storiche, geografiche e climatiche. Difficile pensarla come un’isola e basta, vista l’incredibile ricchezza culturale e quindi culinaria che la pone al di sopra e al di là di altri luoghi. Siamo, e lo dice la Storia, in una posizione centrale da dove si parte e dove si torna. Una terra felice se pensiamo alle concrete possibilità di ricerca che offre. Per questo il menu che ho da poco realizzato l’ho chiamato “Dominazioni” dedicandolo proprio a chi qui ci ha dominato. Al centro del Mediterraneo, nel punto di contatto tra Europa e Sud del mondo, tra Occidente e Oriente, - prosegue Sultano - si svolge da secoli la vicenda capitale del gusto e degli ingredienti. Dai fenici ai bizantini, dai francesi agli austriaci, dai napoletani ai piemontesi, ci hanno preso molto ma ci hanno anche lasciato qualcosa in più. La lunga sosta degli arabi in Sicilia fa risorgere l’agricoltura e regala tra le altre cose il riso, lo zucchero, il cotone, gli agrumi, il gelso rosso, il gelsomino, l’anice, il sesamo, i chiodi di garofano, l’invenzione della pasta… Siamo molte cose e da lì nasce l’originalità e l’imprescindibilità dell’essere siciliani».
E infatti nel menu “Dominazioni” si trova la persistenza di diverse culture culinarie, come se la carta fosse un Atlante sul quale il cuoco traccia un compendio di sapori che partono dal Mediterraneo e guardano a Medio Oriente, Europa e Africa, tutte terre affacciate su un unico mare. La peculiarità è che il recupero di antiche ricette, rielaborate e riunite in uno stesso percorso parlano la stessa lingua, sorprendentemente contemporanea. «Io vivo nel barocco, ma non sono barocco», precisa risoluto Ciccio, «la mia cucina è attuale, profondamente radicata e al tempo stesso libera, traduce e tradisce la tradizione. L’innovazione di oggi è la tradizione di domani, come la tradizione era l’innovazione di ieri».
E quindi tra i piatti di “Dominazioni”, Sultano ha inserito il Tonno “abbuttunatu” con il suo sugo e salsa di capperi, creazione nata sotto gli Arabi quando trasferirono la capitale da Siracusa a Palermo, abbuttunatu è infatti un’espressione palermitana per dire “riempito”; oppure primi come lo Spaghettone in salsa moresca “Taratatà” con bottarga di tonno e succo di carote in memoria dei Bizantini, che arrivati in terra sicula per primi si interessarono alla bottarga (il taratatà, invece, è dialetto per indicare una “grande confusione”, ricorda il cozzo delle spade dei cristiani e degli infedeli quando si balla la danza moresca che accompagna la festa); e ancora nel menu ci sono dolci molto corroboranti come il Vino d’Arabia. Moakaffè che è un doppio omaggio: alla bevanda eccitante, forse originaria di Caffa in Etiopia, giunta nello Yemen tra il XIII e il XIV secolo e propagatasi, poi, in Europa attraverso il mondo arabo e ottomano; e un riconoscimento all’azienda produttrice di caffè Moak, l’antico nome arabo di Modica, storico partner di Ciccio Sultano.
Da tempo nell’alta ristorazione la differenza la fa la ricaduta che può produrre la selezione della materia sul territorio. «Più di ogni cosa io pretendo che la cucina che si serve sia una cucina vera. Vera, cioè sincera per i prodotti, la tradizione, le scelte che incarna. La cernita dei fornitori non ha nulla a che fare con il km zero. La qualità nasce dalla frequentazione personale, dal fatto che ristorante e fornitori ci mettono la faccia. Prima che dalle leggi e dalle certificazioni, la sostenibilità è garantita dalle persone – prosegue Sultano - È un circolo virtuoso: difendendo la dignità dei clienti, difendo anche la dignità dei miei fornitori che a loro volta difendono la loro e la mia. In tutti i casi ho a che fare con delle persone. Contano la conoscenza, la fiducia e anche l’amicizia», come nel caso di Aia Gaia un piccolo tesoretto di biodiversità per uova e pollame; o come per Raul che fa l’ortolano dalla zona del Cerasuolo di Vittori, vicino Pedalino da dove arrivano le verdure utilizzate nella cucina di Ciccio che suggerisce: «fermatevi da Raul a pranzo o cena, e ricordatevi che le verdure sono anche consegnate a domicilio».
E poi ci sono aziende agricole vaste come la Pianogrillo con il cui olio Sultano condisce, per esempio, quel Tonno “abbuttunatu” di araba memoria; la famiglia Testa, pescatori da oltre due secoli, con la quale lo chef ha avviato una collaborazione per la selezione e commercializzazione del tonno rosso del Tirreno, pesce azzurro delle Eolie e alici dello Ionio; e ancora l’olio, la ricotta e il cosacavaddu (il caciocavallo ragusano) di Gulino u’massaru definito dallo chef «uomo antico, ospitale e allevatore saggio», che “fatica” in contrada Raffino situata alla fine di una lunga strada di tornanti che viene giù dal Castello di Donnafugata, quello dove Luchino Visconti girò alcune scene del Gattopardo e Matteo Garrone Lu cuntu de’ li cunti. Tanto per ricordare il contesto fascinoso che ammanta ogni profumo e gusto.
«Per me esiste la Sicilia con tutti i suoi 25.000 chilometri quadrati di sapienza agricola e culinaria. Ricordiamoci che la centralità dell’Isola ha favorito l’arrivo di prodotti e merci dal resto del mondo». Con Ciccio e Gabriella, sua compagna di vita oltre che lavoro, colonna portante nell’organizzazione dell’azienda e al contempo sorriso, empatia e competenza in sala, con loro tutte queste biddizze si ritrovano a tavola. Davvero. Si sta seduti, ma si vola: dal barocco del Duomo di San Giorgio e il Circolo di Conversazione a Ibla, alla spiaggia di Punta Secca e la casa di Montalbano; dalla foresta dell’Irminio alla patria del cioccolato, Modica, e poi al lido di Donnalucata, il cui nome deriva dall’arabo Ayn-Al-Awqat, cioè fonte delle ore, perché pare legato a una sorgente dedicata a Demetra, dea delle messi.
E poi il sole, il sale che sembra diamante, il vino Cerasuolo, il Marsala, il tufo dei palazzi, il profumo di zagare, finocchietto, menta, miele; i vicoli senza uscita, le scalinate infinite; il sapore di fichi d’india, mandorle, capperi, lenticchie, fave, triglie di scoglio, ricotta di capra, e poi la fatica di uomini e donne. Un viaggio al centro del mondo. E della (nostra) Storia.