Il MiddleastNow Festival di Firenze, questa primavera alla sua nona edizione, è da sempre assai affollato perché fa vivere alla città uno spaccato di vita quotidiana dei luoghi mediorientali, sconosciuti ai più ma assai fascinosi nell'immaginario collettivo. Si creano, nell’arco di pochi giorni, laboratori per l’apprendimento della lingua araba e delle tradizioni culinarie palestinesi e siriane, sintetizzate nel manuale Our Syria. Recipes from Home di Dina Mousawi e Itab Azzam che avvicinano alla vita di ogni giorno e, molto più di tante parole, alle diverse culture.
Cornice dei film, selezionati con grande cura da Lisa Chiari e Roberto Ruta, è quest’anno l’hastag #Middleast, il tema 2018 che, reso in immagini con un video di animazione, indaga cosa significa essere connessi in Medio Oriente, utilizzare i social media per comunicare, lanciare messaggi, idee e input nuovi. Il festival sposta l'attenzione sullo storytelling che milioni di individui - dalla casalinga palestinese al combattente dello jihad, dai professionisti delle grandi realtà urbane ai giovani curiosi di nuove esperienze di vita - costruiscono ogni giorno attraverso la rete. Negli ultimi due anni il Festival, come vedremo, si è fatto carico di un’alta funzione politica, quella di tenere informati delle atrocità commesse contro il popolo siriano da potenze straniere di tutto il mondo.
Seguendo assiduamente le edizioni di questo festival annuale, ci formiamo idee sempre più chiare della situazione palestinese, e a ogni edizione ci stupiamo della vitalità che questo popolo conserva, forse perché le notizie sulla Palestina in Italia riguardano gli abitanti dei territori occupati, che sono soggetti a vessazioni e aggressioni gravissime. Ma esiste, lo abbiamo imparato proprio da un film, una gran parte di questo popolo che vive in Israele e può condurre una vita “normale” e possiede un passaporto israeliano che permette di entrare e uscire facilmente dalla terra più contesa del pianeta. Come ci dimostra l’esplosiva youtube teacher di arabo Maha Yakoub, che, per inciso, ha elaborato un metodo personalissimo che rende possibile imparare la sua lingua, presa a simbolo di totale incomprensibilità dalla vox populi italiana (Ma parlo arabo!?! si dice quando un ordine impartito viene ignorato). Lei porta a Gerusalemme per un mese allievi di tutto il mondo, a imparare arabo situazionale, con il doppio risultato per i partecipanti di poter dialogare un minimo con gli abitanti e, insieme, di farsi un’idea dell’entità del conflitto.
Una volta tanto il bel film che ha aperto la rassegna, Wajib (2017), sarà visibile nelle sale, e quindi non solo ai pochi eletti che seguono il Festival. È l’ultimo lavoro della regista palestinese Annemarie Jacir, una delle più acclamate voci del cinema arabo di oggi, che ha ricevuto una standing ovation in sala dal pubblico; alla fine della proiezione è risultato vincitore del Middle East Now Award, premio per il film più votato dal pubblico. Protagonisti Abu Shadi, un padre divorziato, insegnante ultrasessantenne che vive a Nazareth, e Shadi, suo figlio architetto, che arriva da Roma dopo anni di assenza per aiutarlo a onorare il suo “wajib”: consegnare a mano le partecipazioni al matrimonio di sua sorella, secondo la tradizione palestinese. Padre e figlio, ormai estranei, sono costretti a passare la giornata assieme. Riaffiorano le tensioni del loro rapporto, incentrate sul restare o andar via dalla Palestina. Con un’acuta ironia, e grazie all’interpretazione strepitosa dei due protagonisti Mohammad e Saleh Bakri, padre e figlio anche nella vita, il film racconta una storia toccante che indaga la linea sottile tra amore e dovere e dove, anche in una città come Nazareth, da sempre palestinese, si sente aleggiare la presenza inquietante degli Israeliani. Sconcertante il documentario Muhi Generally Temporary (Israele, 2017) di Rina Castelnuovo-Hollander e Tamir Elterman, storia di Muhi, ragazzino di sette anni di Gaza, vivace e coraggioso, che ha vissuto tutta la sua vita in un ospedale israeliano a causa di una grave malattia autoimmune, conquistando l'affetto di tutti. Riceve ogni possibile cura medica, ma resta inumano il trattamento riservato alla sua mamma, cui è permessa solo raramente di andarlo a trovare.
Non è tanto la situazione palestinese a destare interrogativi negli spettatori, quanto quella siriana, col suo sanguinoso travaglio. Due film siriani a confronto, The last man in Aleppo (2016), che inaugurò il festival l’anno scorso, e Of fathers and sons (2017), proiettato quest’anno, veicolano messaggi discordanti, di eroica solidarietà il primo, di violenza, religione e training al terrorismo dei bambini il secondo. Il potente documentario del regista siriano Firas Fayyad, girato per passione civile in condizioni difficilissime, trattava della vita dei volontari del corpo di soccorso White Helmets di Aleppo. Era un riconoscimento a uomini che rischiano la vita ogni giorno, accorrendo allo scoppio di bombe lanciate dagli elicotteri sui cittadini inermi e insieme un urlo di richiesta di aiuto indifferibile al mondo , ma non entrava a descrivere i contendenti e le loro ragioni. Anche Of fathers and sons è un documentario. Girato da Talal Derki, che ha passato due anni fingendo di essere un sostenitore della jihad per seguire da vicino le dinamiche di un padre, Abu Osama, che educa i propri figli al terrorismo e alla guerra.
Il secondo film riesce quasi a eliminare la solidarietà ai Siriani indotta dal primo. Il protagonista è un seguace di Al-Nusra, braccio siriano di Al-Qaeda. Questo padre-padrone combatte il regime credendo fermamente nella legge della sharī‘a e vive a stretto contato con i figli maschi, in cui fin da piccoli istilla un ossessivo concentrato di violenza mista a continui appelli ad Allah, ispiratore di ogni sua azione, per apparire ai loro occhi un esecutore della legge divina, sia che disinneschi una bomba, o sgozzi davanti ai loro occhi un agnello, sia che colpisca in piena faccia il primogenito che ha bestemmiato per l’orrore di cui, insieme ai suoi fratellini, è nutrito ogni giorno. Talal Derki è riuscito a entrare all'interno di un mondo inaccessibile, un orrore a noi quasi sconosciuto e incomprensibile. Ma non è costruttivo pensare che i Siriani, più che oppressi, siano loro stessi costruttori di morte. Perché sono pochi i seguaci di Al-Nusra, mentre sono molti i civili inermi, sui quali piovono bombe dei paesi stranieri che su quella terra concentrano le loro battaglie.
Per ricostruire le fasi salienti di questo scontro perpetuo, ci viene in aiuto la lettura di un articolo del settimanale Left, uscito nei giorni del Festival, dove chi scrive di Siria è un siriano, Fouad Roueiha, che dà un forte contributo alla conoscenza di alcune modalità del conflitto, iniziato 8 anni fa. Un conflitto devastante, con oltre mezzo milione di morti e metà della popolazione costretta ad abbandonare le proprie case. Fino al 2015 era una guerra civile per allontanare il tiranno Basciar el Assad, che però una parte della popolazione voleva come guida della nazione. Poi nel conflitto si è infilato l’Iran. Una grande potenza mediorientale che si muove per difendere i più deboli, ma che crea preoccupazioni a Israele, che si sente minacciata di avere un nemico di quelle dimensioni in Siria, troppo vicino ai suoi confini. Fouad elenca tutti i contendenti che hanno preso di mira, nel senso letterale del termine, la Siria, e cioè America, Russia, Palestina, Iran, lealisti, oppositori di Assad. Una ridda di spiegazioni viene data sui motivi di queste molteplici ingerenze. La Russia pare interessata allo sbocco sul mare che la Siria rappresenta per la Nazione; l’America si fa avanti per impedire all’Iran rapporti stretti con la Siria, volendo essere l’unica a pilotare la politica del Medio Oriente.
Una graphic novel appena pubblicata per Add editore, Freedom Hospital, di Hamid Sulaiman, fuggito nel 2011 dalla Siria per evitare il carcere e le torture, è pure consigliata per la semplicità con cui descrive i protagonisti di questa guerra, guerra ben lontana da una soluzione, che si è concretizzata, nella sua cruda realtà, durante le due ultime edizioni del festival. All'indomani dell'apertura, infatti, l’anno scorso, si è verificato l’eccidio di 74 persone nella provincia siriana di Idlib, la maggior parte delle quali civili, mediante un bombardamento chimico. Quest’anno un nuovo bombardamento è avvenuto il giorno prima della chiusura del Festival, come ritorsione degli Americani contro i Siriani, perché, una settimana prima, avevano usato armi chimiche nell’enclave ribelle di Douma, alla periferia di Damasco. Molti civili, in maggioranza bambini, anche questa volta sono rimasti uccisi.
I film, i talk, la selezione di libri che troviamo alla Compagnia ci parlano di questo popolo, dei suoi problemi e del suo variegato quotidiano, costringendoci a spazzar via l’indifferenza che ignora le tante guerre che avvengono nel mondo. Non è un caso che come miglior cortometraggio d’autore sia stato premiato da OFF Cinema One Day in Aleppo di Ali Alibrahim, con la motivazione “Per il coraggio e la forza espressiva... di raccontare il quotidiano martirio subito dall’indifesa popolazione civile, in una nazione abbandonata a se stessa... abbiamo scelto un cortometraggio che sicuramente potrà rimanere a testimonianza del medioriente del 2017, per la sua capacità di aprire uno squarcio su una realtà dolente, fungendo da atto artistico e politico e permettendoci di vedere da vicino situazioni lontane, con uno sguardo umano ed empatico”.
Una menzione speciale è andata a The Day we Left Aleppo di Hassan Kattan, “per la sensibilità con cui ritrae il dramma di una città sotto assedio, attraverso la vita, i sentimenti, la storia di due ragazzi, nell’atmosfera sospesa dell’attesa e nel momento decisivo della partenza”.