Davvero, non l'ho fatto apposta... La parola che meglio mi rappresenta è “Milano”. E per una che è nata a Bruxelles non è poco. I miei genitori erano sopravvissuti a un'infanzia scandita dalle bombe della Seconda guerra mondiale e al disorientamento politico di un continente in fiamme. Mia madre era fuggita dalle macerie della Ruhr per fare l'interprete parlamentare presso la nascente Comunità Europea e mio padre era un ingegnere siderurgico che aveva girato mezzo mondo per affrancarsi dal provincialismo padovano.
Entrambi ferventi europeisti, come gran parte della loro generazione, avevano fatto del cosmopolitismo professionale una filosofia di vita. Perché parlo di loro? Perché sono stati un riferimento fondamentale per la mia indipendenza intellettuale. Ho passato i primi anni di vita spostandomi da una città europea all'altra, seguendo le loro tappe professionali, per approdare infine a Milano, nell'effervescente '68. Ed è stato amore a prima vista. Di Milano mi piaceva tutto: la nebbia su cui facevo i temi a scuola, i compagni di classe di tutte le regioni d'Italia, le fabbriche in mezzo alla città, le manifestazioni che passavano sotto casa, le ragazze in minigonna, i grandi quotidiani, il Duomo di notte quando ci si girava intorno in macchina, il primo design che invadeva le case, addirittura il brutto palazzo “moderno” in cui abitavamo, dove vivevano calciatori del Milan come Schnellinger o personaggi come Franco Califano al culmine della sua “califanità” (ricordo ancora la nube tossica di dopobarba che lasciava in ascensore).
L'impronta internazionale di famiglia, mescolata al senso di appartenenza da “milanese non milanese” mi avrebbero dato la sicurezza necessaria per scrivere per il teatro e la televisione, per crearmi una identità radiofonica, per analizzare la realtà dei molti paesi che visitavo per lavoro o dove vivevo. Una certezza: a cinque anni avevo giurato a me stessa che non avrei mai lasciato definitivamente da Milano. E così è stato. Ci sono sempre tornata.
Una donna che insiste sull’eguaglianza rinuncia alla propria superiorità.
(A. France)
Non ho mai sentito il bisogno di insistere sull'eguaglianza, perché non mi sono mai sentita “diseguale”. Mia madre lavorava e guadagnava come o più di mio padre, che riscopriva le sue radici maschiliste solo quando veniva in visita mia nonna, alla quale doveva dimostrare di essere il capofamiglia. Ma in realtà era fierissimo dei successi professionali della moglie. Ed è stato proprio lui, un uomo dall'educazione tradizionale, a insegnarmi che avrei potuto fare tutto, se lo avessi voluto. Per questo è stato difficile, più tardi, gestire le innegabili discriminazioni che alcuni uomini incontrati nella vita professionale o privata sembravano mettere in atto quasi automaticamente, come se fosse un dovere sociale. L'effetto “branco” di gruppi di lavoro quasi esclusivamente maschili, anche in ambienti che si professavano progressisti, o certe manifestazioni private di aggressività sono state per me brutte sorprese dell'età adulta. Ho sempre reagito con distacco e talvolta con disprezzo. Trovo che un uomo che discrimina un altro essere perché diverso (in questo caso, una donna) sia la massima espressione della miseria umana.
Donna si nasce o si diventa?
Donne si nasce e si diventa! Ma decidere che donna diventare è più difficile. I modelli mutano con le generazioni e il '900 è stato un secolo in cui i riferimenti culturali femminili hanno subito cambiamenti epocali. Negli anni '60 ero una delle poche ad avere una madre che lavorava fuori casa, molte mie coetanee avevano mamme casalinghe, o che svolgevano attività subalterne a quella del marito. Oggi sembra assurdo, ma appena pochi decenni fa sostenere l'esame per la patente era per molte italiane un importante gesto di indipendenza. A noi bambine la società suggeriva di diventare infermiere o insegnanti. Mestieri da donne. Oggi molto è cambiato, anche se non sempre in meglio. Penso al dilemma di tante donne che vorrebbero un lavoro e anche una famiglia, spesso tradite dalle aziende e dall'assenza di servizi.
Single, coppia, famiglia: qual è il futuro della donna?
Un valido obbiettivo per l'avvenire sarebbe quello di far sì che il ruolo sociale delle donne non fosse più rigidamente definito dallo sguardo degli altri. Un esempio? Ancora oggi le donne che scelgono di non avere figli sono guardate con sospetto o tacciate di egoismo. In realtà, il vero egoismo è spesso quello di fare un figlio a tutti i costi, di considerarlo un must, come l'auto o le vacanze. Magari per poi trascurarlo e negargli una vera educazione, pur controllandolo ogni minuto con il cellulare.
Quote rosa?
Non vado matta per le quote garantite, spesso sono nuove gabbie dove rinchiudere una categoria da tenere sotto controllo, che siano donne o minoranze. Lascia però esterrefatti la coriacea resistenza di alcuni ambiti professionali italiani, come la politica e l'imprenditoria, o di settori artistici come la regia teatrale e cinematografica, ad accogliere con naturalezza il contributo delle donne. Trovo inoltre inaccettabile che in Italia la valutazione di una donna che si distingue per merito non prescinda MAI dal giudizio sul suo aspetto fisico. Società più tradizionali della nostra hanno saputo riconoscere il valore delle donne in ambiti storicamente maschili, se dimostrato nei fatti.
Ha curato l'adattamento teatrale de La bruttina stagionata di Carmen Covito: pensa che dagli anni '90, quando uscì il libro, a oggi, l'immagine che la donna ha di se stessa sia cambiata?
Il romanzo di Carmen Covito, che ho adattato per l'interpretazione di Gabriella Franchini, con la regia della grande Franca Valeri, è ancora oggi originale e spiazzante. Marilina, la protagonista, è una donna qualunque, di mezza età, né bella, né brutta. Fa un lavoro insignificante e la sua vita scorre sui binari dell'abitudine. Una serie di eventi (quasi) fortuiti ed esilaranti le fanno scoprire la sua vera personalità e le offrono la chiave per vivere l'amore, il sesso, il lavoro con autentica indipendenza. La storia di Marilina rappresenta tuttora uno straordinario e ironico modello di libertà e anticonformismo femminile.
Autrice, conduttrice, docente, traduttrice: qual è il filo rosso che lega tutte queste attività?
La parola è l'elemento-chiave di ogni mia attività. Ho iniziato a parlare molto presto e non ho più smesso. La possibilità di parlare più di una lingua mi ha avvantaggiata. La professione di mia madre, che parlava al microfono delle cabine di simultanea, mi ha ispirata. Ero la “speaker” ufficiale della mia classe e nelle recite scolastiche gigioneggiavo spensieratamente. A quattordici anni sono andata in onda alla radio per la prima volta. Nello stesso periodo discutevo animatamente di lirica nel Loggione del Teatro alla Scala. A sedici facevo il clown per le strade della Milano. A diciotto ho scritto il primo spettacolo teatrale. A venti la mia prima traduzione letteraria. Poco dopo, la prima trasmissione televisiva. La parola è da sempre la mia più preziosa alleata, anche e soprattutto con i miei studenti.
È conduttrice radiofonica e autrice televisiva: due approcci diversi…
La radio ha resistito all'avvento delle nuove tecnologie meglio della televisione. È un mezzo elegante e attraente, potentissimo. Lo dimostra il proliferare delle web radio. Il pubblico radiofonico è più esigente, attento: una scemenza alla radio suona due volte più grave che in televisione, dove l'immagine distrae. Il pubblico televisivo, un tempo compatto, è diventato trasversale, sfuggente. Bisogna rivedere l'approccio, archiviare il trash che serve a riempire i palinsesti, tornare a puntare sulla qualità. Ma l'amore per la televisione, per noi che siamo passati dal bianco e nero al colore, dal canale unico alla concorrenza con le private, dal palinsesto fisso alla selezione personalizzata dei programmi, non morirà mai.
La radio e la televisione possono diventare due strumenti formidabili di condizionamento del pubblico: in base alla sua esperienza, è possibile, e in che modo, sfruttare questi media con una connotazione più informativa ed educativa?
Come dicevo, si devono recuperare contenuti e qualità, veicolandoli in modo contemporaneo, data la rivoluzione prodotta dal web. Linguaggi popolari recenti, come l'infotainment o il reality, creano spesso prodotti di basso livello perché vengono interpretati con approssimazione o volgarità. Quanto al ruolo “educativo” dei media, credo che si debba aggiornare l'approccio alla questione. Educare un utente dei media contemporaneo suona irrimediabilmente paternalistico. Sarebbe meglio influenzare la sua capacità di discernimento dei contenuti. Non ci mancano le informazioni, ne siamo sommersi. Il problema è selezionarle e decodificarle. Bisogna lavorare sul “come” e non solo sul “cosa”.
Ha lavorato e lavora per emittenti indipendenti e grossi gruppi editoriali nazionali e internazionali: come è riuscita a calibrare il suo apporto in due realtà così diverse?
Il criterio è sempre stato quello della scoperta, dell'apprendimento di nuovi strumenti. La diretta televisiva e radiofonica è sempre stata per me una grande passione. Il brivido del live è inimitabile, magico. E anche nei postprodotti, come il documentario, c'è sempre da imparare. Il lavoro per i media è incessante, totalizzate, non finisce mai. La curiosità è costantemente sollecitata. Ed è molto interessante alternare i linguaggi: quello più disinvolto di un'emittente indipendente a quello più rigoroso di reti o gruppi editoriali più istituzionali.
È docente presso la Civica Scuola di Teatro, in che modo i discenti si accostano all'arte drammatica?
Ho la fortuna di insegnare in due Scuole Civiche di Milano, la “Paolo Grassi” per il Teatro (che io stessa ho frequentato) e la “Luchino Visconti” per il Cinema e la Televisione. Sono scuole di eccellenza e tradizione, al servizio della collettività, abbordabili anche per chi ha mezzi economici limitati, ma con una forte selezione all'ingresso. Insegnare a chi vuole lavorare per lo spettacolo e la comunicazione è un privilegio. Imparo dai miei studenti più di quanto insegno, il confronto è sincero e appassionante, anche quando si anima di opinioni diverse.
Milano, sede di grandi giornali e di grandi concentrazioni editoriali: quanto spazio rimane per un'informazione libera?
Il tema è immenso e complesso. L'informazione libera esiste a mio avviso solo in assenza di “ricatto” economico. Ecco perché alcuni anni fa ho scelto di tornare a lavorare per Radio Popolare, una realtà unica nel panorama italiano perché non è “ostaggio” di una proprietà, se non quella “diffusa” dei suoi ascoltatori, che la sostengono da più di quarant'anni con un abbonamento, autentico antenato del crowdfunding.
Tiene una rubrica di cultura presso una diffusa emittente locale: come vede l'approccio di Milano alle proposte culturali?
Sono complessivamente soddisfatta della proposta culturale messa in campo a Milano dalle ultime amministrazioni comunali. Milano è ormai un punto di riferimento culturale per l'Europa e non solo. La valorizzazione delle risorse più tradizionali (teatro, musica, arte, design, moda) si è associata al recupero di aree dismesse o confiscate, al lavoro sulle periferie e al sostegno di realtà culturali indipendenti. Le comunità straniere sono e saranno fondamentali per la costruzione della cultura della Milano di domani. La storia d'amore fra Milano e noi “milanesi non milanesi” continua...
È anche autrice teatrale, se dovesse ambientare una sua opera en plein air, quali luoghi della città sceglierebbe?
Mi piacerebbe (come del resto hanno già fatto gli studenti della “Paolo Grassi”) sfruttare il fascino straordinario del Cimitero Monumentale, ma anche l'atmosfera notturna degli scali ferroviari o dello stadio di S. Siro, e naturalmente la sommità di uno dei nuovi grattacieli spuntati nello skyline della città.
Milano è una città amica delle donne?
Per gli standard italiani, direi di sì, soprattutto pensando alle opportunità professionali e alla qualità dei servizi. Ma c'è ancora molto da lavorare sugli spazi e sulle opportunità per la famiglia e in genere sulle categorie più fragili, la cui cura ricade quasi sempre e solo sulle spalle delle donne.