L’idea è nata in modo fortuito nella primavera del 1993, durante un viaggio di studio negli Stati Uniti. Per di più è nata in un luogo improbabile, quale l’aula magna della Rice University di Houston, dove mi trovavo per assistere a una lezione magistrale che Vincent Scully aveva voluto dedicare alla “svolta digitale” di Frank O. Gehry e che fu chiosata da una profezia stravagante dal punto di vista storico, ma illuminante dal punto di vista culturale. Scully infatti, commentando l’intrigante complessità spaziale del Guggenheim di Bilbao, sostenne che, nella malaugurata ipotesi che in futuro si dovesse perdere ogni memoria del celebre museo basco, qualsiasi archeologo non esiterebbe a datarlo intorno alla seconda metà del XX secolo, in concorso all’irruzione della computergrafica negli studi professionali: perché la fluidità plastica delle trentatremila lamine di titanio della copertura non avrebbe potuto essere né concepita né costruita senza il sussidio della modellazione elettronica tridimensionale.
Provai un tuffo al cuore. L’acuta notazione di Scully, eleggendo il livello di conoscenza delle tecniche di rappresentazione a prova documentaria, aveva squadernato le mie convinzioni più consolidate. Ma soprattutto aveva turbato la mia memoria, evocando l’altrettanto acuta osservazione fatta molti anni prima da Aldo Rossi quando, coinvolto durante un simposio in un’appassionata dissertazione sulla città di Gubbio, aveva focalizzato l’attenzione sulla forma dei Ceri (forse perché consona all’assemblaggio di volumi primari proprio del suo repertorio stilistico), liquidando come illogica l’ipotesi evoluzionista sostenuta dai più e accogliendo come verosimile quella creazionista. Tanto da concordare sulla necessità di un progetto razionale trascendente. Fu così che, mentre le luci dell’aula texana si accendevano e mentre tutti i presenti si alzavano in piedi per applaudire l’oratore, io rimasi inchiodato alla poltroncina su cui ero seduto e il mio pensiero, superato d’un balzo l’oceano, volò sulla cima del monte Ingino dove, nella penombra della navata laterale di un’algida basilica rinascimentale, erano custoditi tre misteriosi totem di legno, la cui forma (ora mi era chiaro) non poteva che essere datata intorno alla seconda metà del XV secolo, in concorso alla codificazione scientifica dell’arte prospettica: perché l’armonicità poliedrica delle 48 tavolette di legno dei fusti non avrebbe potuto essere né concepita né costruita senza il sussidio dei fondamenti della geometria proiettiva.
Da quel momento, nella mia testa, l’idea della trasfigurazione di reliquiari tardogotici fu soppiantata dall’idea dell’astrazione di figure mentali. Non solo: nell’intento di lumeggiare la genesi formale dei Ceri di Gubbio, cominciai a prescindere dagli aspetti emotivi, concentrando la mia attenzione su quelli prettamente visivi. E lo feci con spirito investigativo, sia rispolverando tecniche desuete, quali il confronto stilistico e l’analisi simbolica (che m’indussero a considerare seriamente possibili ispirazioni numerologiche), sia ricorrendo a strumentazioni avanzate, quali la camera termografica e il laser scanner 3D (che mi consentirono di apprezzare pienamente l’eccezionale competenza tecnica degli artefici).
Soprattutto però lo feci inseguendo le sorprendenti affinità figurative che riscontrai, sin dai primi sopralluoghi, sulle finte scansie degli studioli federiciani nel Metropolitan Museum of Art di New York oltre che nel palazzo Ducale di Urbino, ma che poi incrociai occasionalmente nei luoghi più disparati: a Firenze, sui pannelli della sagrestia della cattedrale di Santa Maria del Fiore, così come a Venezia, sul pavimento della basilica di San Marco; a Verona, sugli stalli della chiesa di Santa Maria in Organo, così come a Siena, sulle specchiature rimosse dall’abbazia di Monte Oliveto Maggiore e ricomposte nella cattedrale dell’Assunta. Ma anche a Perugia, sulla cassa del pulpito di San Bernardino, dove fui folgorato dall’epifania di un’eccentrica silhouette sormontata da un getto di fiamme quantomeno insolito. Il che mi convinse fermamente che, così come intuito da Gino e Alberto Anselmi in occasione del vittorioso concorso per lo stemma della regione Umbria, i Ceri non sono solo uno straordinario campione di antropologia, ma sono anche un formidabile capolavoro di design. Per di più d’autore.
Da subito, infatti, tutti gli indizi tesero a convergere su un arco temporale ristretto (i primi anni settanta del Quattrocento) e su un movente passionale preciso (la devozione del duca Federico da Montefeltro per Sant’Ubaldo), alimentando un’ipotesi eccitante, che ancora oggi mi eccita, visto che chiama in causa il contributo ideativo della corte feltresca e, con esso, sia quello di grandi artisti come Paolo Uccello, Piero della Francesca, Fra Carnevale e Luca Pacioli, sia quello di grandi architetti come Leon Battista Alberti, Luciano di Laurana, Francesco di Giorgio Martini e Donato Bramante. D’altra parte il rigore compositivo delle tre “macchine” tradisce un codice genetico nitidamente classico: io stesso, ogniqualvolta mi trovo ad ammirare le immagini fotografiche della corsa, non posso non ripensare al rapimento estatico con cui i miei concittadini, magnificando l’eleganza innata dei Ceri con un’espressione dialettale pregna di saggezza popolare (“quant’en belli!”), rimarca inconsciamente quel surplus estetico che, al pari della continuità temporale, contraddistingue e qualifica la festa eugubina rispetto alle tante manifestazioni folcloristiche similari.
Il che chiude il cerchio del mio ragionamento. Perché, così come sentenzia l’unico frammento policleteo che la storia ci ha restituito, “l’arte si ottiene con molti numeri e badando ai minimi dettagli”. Ovvero nella nostra cultura occidentale la bellezza non scaturisce dall’illuminazione fulminea, ma procede dalla ricerca paziente e affonda le proprie radici nell’applicazione di regole precise, compendiate nelle divinae proportiones con cui sono state concepite le meraviglie dell’antichità: il Partenone di Atene, il Pantheon di Roma, il Battistero di Firenze. E i Ceri di Gubbio. Che non sono delle macchine, ma che sono a tutti gli effetti delle vere e proprie architetture.