Pescatori d'Islanda
Quando Axel Gunnarsson lasciò la baia di Bolungarvik per una battuta di pesca non avrebbe potuto immaginare le conseguenze del suo atto.
Era il 21 giugno del 1879. Aveva puntato la prua della sua barca a nord-est in direzione della penisola di Hornstrandir: il vento a favore e le buone condizioni del mare gli avrebbe permesso di raggiungere la zona di pesca in circa tre ore. Con sé aveva molte esche, una buona riserva d’acqua e cibo in abbondanza. Sapeva che quello era il momento dell’anno propizio per la pesca allo sgombro e lui, Axel, era conosciuto per essere un pescatore esperto. A Elna, la sua giovane moglie, prima di partire, aveva detto di tener pronte molte botti di legno e tutto il sale disponibile perché la pesca si preannunciava memorabile.
Quando già era in vista della costa e la foschia del mattino si stava alzando, successe qualcosa di inaspettato: il cielo nel giro di pochi minuti si era riempito di nuvole scure e il mare si era fatto livido e minaccioso. Alex aveva allora afferrato con decisione il timone e per evitare le raffiche di vento aveva piegato la barca di qualche grado verso sud ma la barra si era improvvisamente spezzata e la situazione era precipitata. Un’onda gigantesca aveva spazzato via tutta l’attrezzatura a bordo mentre un cigolio sinistro aveva preceduto il cedimento dell’albero maestro che gli era piombato addosso colpendolo alla testa. Persi i sensi era rimasto riverso nella barca per diverse ore fino a quando uno spruzzo di acqua gelida lo aveva fatto ritornare in sé. Con il corpo dolorante si era allora rimesso in piedi e gettato lo sguardo all’orizzonte aveva scoperto di trovarsi a poche decine di metri dalla scogliera.
Il mare di fronte a lui, come per incanto, era tornato calmo. Il cielo ancora chiaro gli rammentava la nuova stagione in arrivo e le lunghe notti senza buio. Alle sue spalle, lontanissime, vide la luce tremula di alcune lanterne segno che già dal villaggio si erano mosse le imbarcazioni dei soccorritori. Fu allora che scrutando l'acqua notò qualcosa. Nel blu scurissimo vide uno scintillio argentato, una serie intermittente di luci in movimento. Scavalcò i resti dell’albero avvoltolato intorno alla vela strappata e guardò dall’altro lato della barca e anche lì notò lo stesso fenomeno.
Era evidente che si trattava di pesci, di un enorme branco di pesci di passaggio. Sgombri non potevano essere perché questi nuotavano molto più in superficie. Ma allora di che razza di pesci si trattava? Gli tornarono in mente le parole di nonno Ulfur - lui sì che ne aveva visti di pesci nel corso della sua lunga vita - quando raccontava di una stagione di pesca memorabile, migliaia di aringhe improvvisamente comparse nella baia, una vera manna dal cielo dopo anni di penuria e stenti.
Che si stesse ripetendo lo stesso fenomeno? Riguardò giù nell’acqua e vide ancora più movimento, tutta la zona anche a distanza di qualche metro dalla barca era attraversata da quell’enorme flusso compatto di pesci. Quando i soccorritori giunsero la gioia fu doppia: aver ritrovato Axel vivo e aver scoperto quello spettacolare passaggio di pesce. Senza perdere tempo ci si organizzò per una prima battuta di pesca alla quale parteciparono tutti.
I risultati furono grandiosi. Ne seguirono altre e si andò avanti per oltre un mese, tutti i giorni. Le barche tornavano al villaggio stracolme. Il flusso di aringhe in quel punto del mare pareva davvero inarrestabile. Il 1879 fu ricordato come l’anno della grande pesca e segnò l’inizio di un periodo di benessere per tutti gli abitanti del fiordo. Da allora, puntualmente, ogni 21 giugno, le aringhe riapparirono nella baia e col tempo intorno a questo evento si sviluppò una nuova realtà. Attività economiche un tempo impensabili furono fondate in tutta la zona proprio grazie a quella risorsa naturale e ciò determinò grandi spostamenti di genti e la nascita di due nuovi villaggi proprio là dove anni prima era naufragato Axel. Si sparse la voce.
Importanti imprenditori danesi e inglesi, informati della possibilità di fare grossi guadagni, fecero costruire nuove fabbriche per la lavorazione e la conservazione delle aringhe. I nuovi villaggi in breve tempo divennero così popolosi che fu necessario costruire due chiese e una scuola. Tutti gli abitanti del luogo ormai erano coinvolti nella pesca delle aringhe e così fu per oltre 70 anni fino a quando, un fatidico 21 giugno, il flusso dei pesci si arrestò lasciando sgomenti tutti.
Si pensò a uno scherzo della natura o a un ritardo dovuto alle condizioni meteorologiche. Ma più andavano avanti i giorni più fu chiaro che qualcosa di irreparabile era successo. Un gruppo di pescatori disperati si recò addirittura a casa di Axel – allora ultranovantenne - nell’ingenuo tentativo di trovare una soluzione. Si decise di attendere ancora, non senza ansia, l’anno successivo e poi ancora un altro anno ma non successe nulla. Nel giro di 4 o 5 anni i villaggi gradualmente cominciarono a spopolarsi, le fabbriche a chiudere. I pochi abitanti rimasti, in gran parte anziani, vissero in condizioni di stenti e desolazione con le poche risorse rimaste.
Nell’aprile del 1972 due agenti della polizia di Boulungarvik attraversarono il fiordo per andare a prendere Uldur Axelsson, il figlio di Axel, ultimo abitante del villaggio, costringendolo a lasciare tutto per trasferirsi nella cittadina sulla costa. Oggi ciò che resta dei due villaggi di quell’epoca d’oro - poche baracche di legno invase dall'erba e i resti di un molo - viene visitato da piccole comitive di turisti durante trekking guidati nella zona dei fiordi.
Spaghetti alla Milan
Ogni estate torno allo scoglio di Bladich, una minuscola isola dell’arcipelago istriano, a poche miglia da Rovigno. Il posto è brullo e disabitato, chi si avventura da quelle parti sa di doversi portare tutto, compresa l’acqua. La mia guida si chiama Milan Novak, un omone croato di oltre settant’anni che conosce Bladich palmo a palmo e lì torna di sovente durante la buona stagione per brevi visite giornaliere durante le quali si dedica alla pesca.
Nascosto da una macchia di arbusti odorosi, nella parte protetta a sud dell’isola, c’è un piccolo riparo in pietra costruito da Milan. Lui lì tiene parte della sua attrezzatura e piccoli generi di conforto, come il liquore di albicocche o certi dolcetti ripieni di semi di papavero che non ha mai voluto dirmi dove trova.
Non c’è estate che passi senza che si ripeta il rituale della pasta alla Milan. È lui stesso che annuncia la cena mostrando due grosse aragoste appena liberate dalle nasse, armeggiando a torso nudo sul traballante piano di una vecchia cucina a gas.
Intorno a noi è tutto scogli, sole e acqua turchese. Mentre un pentolone d’acqua viene portato a bollore, in una padella bassa e ammaccata già soffriggono cipolle e aglio in abbondanza. Milan, apparentemente distratto dalla conversazione con gli amici, è attento e sa cogliere l’attimo perfetto per tagliare due grossi pomodori maturi tenendoli tra le dita e aggiungerli al tegame sfrigolante. Le aragoste sbollentate e diventate di un rosso acceso vengono sezionate e scavate con le mani con gesti rapidi e sapienti, la polpa candida unita al sugo incandescente.
E ancora sale, pepe... ciuffi di prezzemolo interi mentre un brodetto fa la sua comparsa – dentro trigliette e patelle di scoglio - e viene versato copioso sopra tutto. Sorpresa: gli spaghetti non vengono cotti a parte ma spezzati e buttati in quel tegame delle meraviglie.
Qui le uniche stelle sono quelle che appaiono nel cielo, non ci sono competizioni televisive, non ci si pavoneggia per ricette originali, semplicemente si è sempre fatto così. Il gusto di quegli spaghetti dà alla testa, crea ogni volta un pericoloso precedente, mai più si vorrebbero fare compromessi, mai più mangiare altro pesce al di fuori di quello pescato e cucinato dal vecchio Milan. Ma poi si ricade in quella abitudine, terribile, di far scivolare il branzinetto allevato e incellofanato in fondo al carrello della spesa al supermercato di città o di gioire senza convinzione per una pasta con gamberi argentini decongelati. Cose terribili.
No, no, questa volta resisterò, devo farcela, pensavo dentro di me. E lui, Milan, lo sento, fa il tifo per me, mentre mi invita a passare il pane nel fondo del tegame e mi sorride benevolo mettendo in bella vista il suo dente d’oro.