A bordo della Ford Mustag decapottabile del Dott. Dave Atkinson, sfrecciavamo all’interno della Metropoli americana in direzione del Southwestern Medical Center dove da lì a poco avremmo condotto insieme un seminario tra psichiatria e comunicazione non verbale.
Dave è uno psichiatra infantile e adolescenziale, Professore associato in Psichiatria all’University of Texas – Southwestern Medical Center a Dallas, Dirigente del Teen Recovery Program at Chil-drens Health e Presidente del comitato adolescenza e gioventù per l’American Academy of Addic-tion Psychiatry, insomma tutto tranne che uno sprovveduto per essere un ragazzo di 40 anni e aver raggiunto già questo livello di carriera.
Dopo aver assistito ai miei workshop sulla gestualità italiana a confronto con il resto del mondo e aver visto i miei spettacoli, decise di propormi una collaborazione professionale per fornire nuovi strumenti di lavoro agli studenti specializzandi in Psichiatria infantile e adolescenziale.
Mentre osservavo la città texana scorrermi in velocità davanti agli occhi, non riuscivo a non pensare che negli ultimi tre anni ho iniziato collaborazioni con diversi psichiatri e psicologi in diversi campi e cercavo di comprenderne le ragioni. Forse siamo profondamente attratti reciprocamente dalle nostre attività dove riscontriamo forti punti di connessione? Forse a loro piace come funziona il mio cervello e mi stanno studiando? Avrei dovuto iniziare a preoccuparmi? Sorrisi e immediatamente chiesi a Dave che diagnosi aveva fatto di me fino a quel momento. Senza esitare mi rispose che secondo lui sono un soggetto iperattivo con qualche disturbo dell’attenzione e che riuscivo a dare voce alla mia iperattività con tutte le poliedriche attività che porto avanti. Interessante pensai, in fondo avrei descritto allo stesso modo lui anche senza averne gli strumenti scientifici. Arrivammo al Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Dallas dove ad aspettarci c’erano una ventina di medici americani. Questi giovani medici ogni giorno assistono famiglie di pazienti psichiatrici che non parlano inglese o bambini e adolescenti che non riescono a comunicare efficacemente a causa di disturbi dell’ansia o legati alla loro forte emotività.
Fu evidente a occhio nudo che non erano tutti americani da generazioni, ma c’era chi aveva origini iraniane, indiane, africane, cinesi e altre ancora. Il contesto perfetto, insomma, per unire il discorso prettamente scientifico a quello linguistico e culturale. Dopo aver cancellato le inibizioni iniziali facendo fare loro dei semplici esercizi di comunicazione non verbale per esprimere concetti ed emozioni, siamo andati in profondità e ci siamo concentrati sugli aspetti legati alla loro professione. Dopo aver lavorato insieme sulla lettura della mente e delle emozioni tramite gli occhi o le espressioni del viso abbiamo iniziato l’analisi delle problematiche quotidiane.
Il dato che emergeva era chiaro: tutti i pazienti fanno fatica a esprimere le proprie emozioni dolorose e in particolare i bambini non riescono a farlo quasi mai davanti i genitori o davanti a un adulto che non conoscono. Quale strada percorrere? Chiaramente bisogna empatizzare e creare una connessione mentale e gestuale con il soggetto. Osservarlo con la giusta attenzione, ma anche con la giusta espressione del viso per non perdere la sua fiducia e scaturire un crack emotivo. Questo vale sempre e in particolare quando non si parla la stessa lingua e quindi diventa necessario avvalersi della collaborazione di un traduttore. A chi deve guardare il dottore quando il traduttore rivela le parole e le sofferenze del paziente?
Noi crediamo che sia fondamentale focalizzarsi sul paziente e concentrarsi su tutto quello che i movimenti del suo viso e del suo corpo vogliono comunicare a fatica. Ecco perché io e Dave suggerimmo ai suoi colleghi di assumere una posizione a triangolo dove il traduttore si pone di lato e non in mezzo come una barriera tra esaminatore ed esaminato. Tenendo sempre presente un possibile margine di errore umano nella traduzione o interpretazione delle parole, diventa necessario leggere il più correttamente possibile le emozioni del paziente. Questo atteggiamento del medico lo avvicinerà alla persona che in quel momento prova la sensazione di disagio simile a quella vissuta quando ci troviamo di fronte a due persone che parlano una lingua che non capiamo, ma è chiarissimo che stanno parlando di noi. L’approccio più diretto e umano del medico lo farà sentirà maggiormente compreso e ascoltato e quindi molto probabilmente si aprirà e si racconterà più facilmente.
A quel punto un medico disse di avere avuto difficoltà con dei pazienti messicani perché non riusciva a capire determinati gesti o comportamenti latini dato che non appartenevano a codici comunicativi riconducibili alla cultura degli Stati Uniti. Un invito a nozze per le mie argomentazioni sui problemi interculturali che possono insorgere nella incomprensione con la comunicazione non verbale. È un dato di fatto che una delle difficoltà maggiori negli incontri interculturali sono proprio i possibili errori di lettura del codice comportamentale altrui. Anche se chiaramente non ci si può avvalere dell’uso del tatto e contatto fisico per etica professionale, un latino a parer mio, necessita culturalmente di un tipo di atteggiamento diverso e più caloroso rispetto a un americano di cultura anglosassone. Potrebbe essere certamente utile diminuire la distanza fisica e ricercare con grande dedizione una sintonizzazione emotiva con il paziente guardandosi negli occhi.
In quel momento per empatizzare con il nostro audience specializzato, decidemmo di raccontare alcuni aneddoti personali. Raccontato loro il mio primo shock culturale vissuto in America quando scoprii la potenza invadente del mio sguardo italiano. Infatti, guardare dritto negli occhi durante una conversazione, che per la mia cultura di origine significa interesse nel discorso e rispetto per la persona che mi sta parlando, in molti altri paesi risulta come una invasione della privacy e che addirittura se rivolto a persone del sesso opposto può addirittura risultare maniacale e destabilizzante.
Riportai quello che accadde al mio primo appuntamento con una bella ragazza americana. Dopo qualche minuto di conversazione infatti lei mi chiese di non guardarla in quel modo perché si sentiva denudata e in profondo imbarazzo e mi propose di osservare una sedia in fondo alla sala. A quel punto il suo imbarazzo diminuì e di contro crebbe a dismisura il mio disagio perché per la prima volta in vita mia mi trovavo di fronte a una bellissima ragazza che però non potevo guardare negli occhi e per rispettarla mi costrinsi a guardare una sedia durante una lunga conversazione.
Dave raccontò del suo shock al contrario quando trovandosi in Sicilia a chiacchierare con i suoi amici, come da sua abitudine americana non sentiva la necessità di guardarli in viso e scatenava sistematicamente una reazione fisica di avvicinamento verso di lui per guardarlo dritto in faccia. In pratica, quella popolazione non poteva accettare il fatto che lui parlasse con loro guardando da un’altra parte o facendo un’altra cosa. Scardinava il loro sistema di contatto visivo e ascolto che avevano imparato fin da bambini. Ognuno dei presenti ci raccontò cosa ricordavano della comunicazione con gli occhi dei loro genitori e durante la loro adolescenza e uscì fuori un altro elemento fondamentale nella vita professionale di un medico ma anche nella vita di ognuno di noi.
Ognuno di noi è un universo culturale ed emotivo ricco e complesso e il nostro corpo ci aiuta a comunicarlo al mondo con codici diversi. Non possiamo dare mai per scontato che la persona che abbiamo di fronte possa comprendere perfettamente quello che vogliamo dire con il nostro sguardo, con le nostre micro espressioni facciali, con i gesti delle mani e con il nostro naturale comportamento.