Il mio ficus pare che mi abbia perdonato. È in casa da poco più di una trentina d’anni. Da quando mi sono sposato. È una pianta docile e paziente che non crea problemi e non richiede cure particolari: un tipo mite. Se ne è stato tranquillo, anche se un po’ triste, nel terrazzino di casa appoggiato un po’ malinconicamente al parapetto, uno di quei tristi parapetti che delimitano le affacciate nei condomini degli anni Cinquanta, messi su con il massimo dell’economia. Tristissime affacciate su quello che chiamano il centro del cortile. Tutte uguali, intristite dalle caldaie da riscaldamento autonomo tutte diverse l’una dall’altra, e dalle ventole dei condizionatori, tutte impudicamente a vista. Tutte prive di piante.
Mi torna alla mente un ricordo dell’infanzia milanese di Alberto Savinio: guardava il mondo esterno attraverso le panciute colonnette a forma di anfora, perché la sua altezza non superava quella della balaustra del balcone. Rimpiangendo quelle colonnette, se la prendeva con gli architetti razionalisti che avevano riempito quelle balaustre con muretti pieni, quasi che avessero paura che gli uomini, diventati improvvisamente liquidi, potessero scivolare giù. Savinio è sempre stato imprevedibilmente paradossale.
Di questi terrazzini del condominio ne ho contati ventotto. Meno male che la loro monotonia è spezzata da altrettanti balconi a sbalzo circondati da una ringhiera verde, questi sì, ravvivati da piantine. Questa sarebbe l’affacciata “buona” del nostro condominio, sulla quale è vietato stendere ad asciugare i panni; affacciata cosiddetta “signorile” alla quale, come accade nelle città di oggi, il fabbricato che ci sta davanti mostra le sue terga dimesse e piene di panni stesi al sole.
In uno di questi terrazzini è stato per anni il mio ficus. Fatale che abbia avuto un po’ il rimorso per averlo un po’ trascurato, anche se gli ho dato sia pur saltuariamente un po’ d’acqua. Poi sono arrivati lavori condominiali di sistemazione delle balconate: motivi di sicurezza, ha detto l’amministratore, dopo i crolli di calcinacci di palazzi monumentali, che hanno riempito per qualche tempo la cronaca cittadina. Da un giorno all’altro operai invadenti hanno preteso la liberazione immediata del terrazzino. Il ficus è stato sloggiato; ma siccome anche il balcone a ringhiera dell’altra affacciata di casa mia era invasa dai lavori, ho chiesto e ottenuto di ospitarlo nell’aiuola grande del giardino condominiale.
Il ficus se ne è stato lì, ancora più intristito, tanto che ho pensato che forse piantandolo in quella aiuola si sarebbe ripreso. Ma il ficus non è risultato adatto all’ornamento di un giardino condominiale dal giardiniere, un tipo saccente di quelli che pretendono di sapere tutto di giardinaggio, di botanica e di floricultura.
“Se non lo rivuole in casa visto come si è ridotto – mi ha riferito a lavori conclusi – possiamo farle il piacere di tagliarlo, per poterlo buttare agevolmente”. Tagliarlo e buttarlo! Manco a parlarne! Ma come si permette! Tra l’altro la pianta è stata uno dei primi regali fatti da mia moglie alla madre quando era ragazzina.
Me lo sono fatto riportare a casa. Non l’ho più poggiato sul triste terrazzino, che immaginavo non gli piacesse; l’ho sistemato a sud ovest, sull’altra balconata dell’appartamento, quella più aerea, protetta dalla ringhiera. Più sole, più aria – ho pensato – gli gioveranno. L’ho messo nell’angolo orientato verso il mare, che da casa mia non si vede, perché sto a un piano basso, ma si può almeno intuire; ho infilato il vaso in un ampio sottovaso; l’ho appoggiato alla ringhiera; l’ho innaffiato tutti i giorni e ho cominciato a parlargli, infischiandomene di internet che la definisce pianta ornamentale da interno. Gli ho parlato dandogli del tu, una volta al maschile, una volta al femminile. Perché è nato il dilemma del suo sesso e la necessità di prendere una decisione. Perché internet mi ha detto che della pianta esistono il maschio e la femmina, senza indicare come scoprire il sesso. Ma, alla fine, l’ho definitivamente chiamato “il ficus”, perché “la ficus” aveva troppa assonanza con altra cosa che pianta non è. Perciò ho deciso, che dal momento della nuova sistemazione ne parlerò sempre al maschile. Insomma, incredibilmente si è ripreso alla grande, non è più depresso e di malumore; e sono contento perché Internet mi dice che può arrivare fino a 2 o 3 metri di altezza. Sto aspettando che si allunghi.
Ma il mio ficus non vuole saperne di svilupparsi in altezza; raggiunti gli ottanta centimetri si è messo in testa di svilupparsi orizzontalmente; si è appoggiato alla ringhiera, sporgendosi senza dar segno di soffrire le vertigini; e si lancia nel vuoto abbandonandosi felice al dondolio che gli procura il vento, dirigendosi spericolatamente verso il basso. Qualche giorno fa l’ho controllato dal cortile e mi sono reso conto che continua sporgersi e ad appendersi, certamente sicuro che io adesso, visto che mi prendo visibilmente cura di lui, gli eviterò di suicidarsi buttandosi giù dal secondo piano di casa mia con tutto il vaso. Così facendo, però, prima o poi, mi tradirà e se la farà con la signora del piano di sotto. Cosa che trovo insopportabile, un po’ per gelosia, un po’ perché la signora del piano di sotto ha la passione solo per le piante gasse che campano da sole, indipendenti, autonome e senza acqua. Allora ho preso a fermare la sua discesa, costringendolo con tiranti di corda da giardinaggio, assicurati a qualche chiodo sul muro, a stare dritto.
La cosa al momento sembra convincerlo poco, perché, se provo ad allentare uno dei tiranti, il ramo tende a seguire gli altri che se ne vanno in orizzontale. Tuttavia proprio alla base del ramo che costringo a stare eretto, sta facendo esplodere la sua energia, buttando dal sottile tronco tante piccole linguette rosse che presto diventeranno foglie. Si vede che l’espediente giova alla sua salute. Glielo dico chiaramente tutti i giorni di non fare tante storie, ché prima o poi lo metterò dritto. E glielo dico a volte ad alta voce tanto che il secondino addetto alla pulizia del cortile alza lo sguardo, mi saluta, e visibilmente impensierito mi chiede se mi sento bene e se va tutto bene. Allora interrompo il battibecco con il ficus per tranquillizzare il premuroso pulitore: “Tranquillo; va tutto bene!”.
Al momento è difficile dire chi dei due l’avrà vinta, tra me che voglio tenerlo con la schiena dritta e lui che, pigro, si poggia sulla ringhiera. Comunque vada, siamo certi io e lui di avere fatto amicizia, nonostante certe divergenze sulla corretta postura. E la sera, dopo l’innaffiata abbondante e una rinfrescata di acqua spruzzata con un vaporizzatore, che d’estate gli piace moltissimo, ce ne stiamo a chiacchierare del più e del meno. Vi assicuro che la cosa è molto più rilassante della televisione.