Valentina è una ragazzina di 16 anni, minuta, piuttosto aguzza, ha una vocina petulante e lamentosa con cui sibila con rabbia numerosi sintomi e disagi.
Mi parla dei giramenti di testa, del senso di vomito, della paura di non digerire, di allontanarsi da casa, di salire in ascensore, di star male… mi dice le sue incertezze, non sa cosa vuole essere, si sente inadeguata, incapace di comunicare, senza qualità, a scuola fa fatica a capire e a studiare e, per tenere a bada tutto questo malessere, si vieta di uscire, di incontrarsi coi compagni, di andare alle feste o in piscina, e queste proibizioni aumentano la sua infelicità.
Si sente perdente, sfortunata, si vede brutta, malata, nel posto sbagliato e al momento sbagliato, invidia chi sta bene e vive tutta questa situazione dolorosa come una profonda ingiustizia. Mi chiede aiuto perché non ce la fa più ad andare avanti così e perché: “voglio vivere le mie emozioni, mentre loro (i genitori) si devono accontentare di vederle negli altri alla televisione”.
I suoi pensieri sono davvero pesanti: “la mamma è un essere che lava, stira, prepara da mangiare, mi accompagna in macchina, ma non sa pensare, non è profonda, non ha sentimenti, non vuole neanche ascoltare i miei, forse è gelosa di me, della mia età, comunque il papà che se la tenga la sua donna, anzi, lui non vale niente, comunque fa tutto quello che voglio io… sarebbe meglio che fossero separati, così la mamma non sarebbe così passiva, non ha nessuna ambizione, vede la tele e basta, allora le converrebbe morire … ho scoperto un sistema per convincere la mamma: piango. Ma per piangere devo fare la fantasia di averla uccisa”.
I suoi bisogni imperiosi e indomabili la rendono implacabile nei confronti dei genitori e con me ripete la stessa modalità relazionale, richiestiva, assoluta, illimitata. Vorrebbe che la tenessi sempre nell’utero come pretende che faccia la madre e nella mente come esige che faccia il padre. “ …il vomito è un gomitolo nero, vorrei che tu mi facessi l’operazione per togliermi quel nodo lì, non importa se poi dopo lo ricreo, poi tu mi operi di nuovo …”.
Lavoriamo sulla conoscenza, pensiamo assieme a come è piena di domande che invece di porre direttamente, esprime in azioni come fanno i bambini che ancora non sanno parlare, i suoi agiti sono proprio come vagiti che le permettono di essere la dama al centro delle preoccupazioni del padre che trasforma in cavalier servente e la bambina al centro delle cure delle madre che fa diventare “la schiava negra”.
Riflettiamo su come le sia difficile staccarsi dai suoi genitori e anche da me, anche se poi la dipendenza la fa arrabbiare… è un circolo vizioso, in questo modo dal gomitolo nero della confusione non si esce più. “…, ma come fai a sapere che ho paura di crescere se non vivi con me e non mi vedi tutti i giorni? Queste cose non si imparano sui libri… facevo la fantasia che tu potessi abitare a casa mia, abbiamo una camera libera, mi basterebbe il tuo sguardo per sentirmi tranquilla, mi viene in mente il dolce stil novo con le donne che avevano il potere di esercitare un influsso paradisiaco sul loro uomo, anche senza parlare”.
Dopo aver per mesi vomitato le sue ambivalenze nei confronti dei genitori, realizza la sua difficoltà a voler bene e la sensazione di essere senza cuore “se mi penso vedo uno specchio e mi faccio schifo … dico bugie … tu mi fai venire in mente il Secretum del Petrarca in cui c’è la verità che tace e ascolta … sei anche Virgilio che accompagna Dante nel cammino verso la beatitudine, ma Dante fa più fatica di Virgilio perché ha il corpo”.
E questo corpo la fa dannare davvero, sta male, non può andare ai concerti coi compagni e la soluzione è che io le incida su una lapide le regole di comportamento, “non so cos’è l’amore, …, mi devi dire come mi devo comportare e io lo studio a memoria … dimmi cos’è l’amore a 16 anni. Parla tu, voglio sentire la tua voce … come devo fare per diventare grande? Tu come hai fatto?” e poi inventa la mia storia e questo lasciar fluire liberamente i pensieri senza dover ricorrere ai soliti slogan le dà un senso di vitalità, subito collegata con l’affettività. Le sue parole dicono l’amore, l’odio, la gelosia, il dolore della separazione.
“… Vorrei portare a casa la poltrona perché solo quando sono seduta qui mi sento viva , ma se penso che gli altri si siedono qua la poltrona mi fa schifo … dovresti volermi più bene che agli altri, tienimi qui … quando me ne vado scommetto che pensi ai fatti tuoi, non pensi più a me … sei come l’ape regina che fa le uova e le dà alle operaie, tu scodelli figli e poi li dai via, io sono la tua figlia vera, sono nata qui e poi tu mi dai a mio padre e a mia madre, tu non solo sei mia madre, sei mia madre e mio padre assieme …”.
Porta dentro un vissuto di coppia genitoriale che non genera amore e un’immagine del corpo materno come vuoto e perciò inadatto per l’identificazione. “La mamma è stupida, non ha niente dentro, non è una donna e neanche un uomo, non ha sentimenti, è la serva negra”. Ma anche se pensa a se stessa le viene in mente il vuoto: “non so niente, posso solo imparare a memoria, ma senza essere capace, è per tutte queste cose che mi hanno bocciato. Ho cominciato a non capire più da quando è morto il nonno, non ho neanche pianto, non ho provato sentimenti, ma è iniziato il vomito”.
Queste accorate parole dicono come Valentina si stia coraggiosamente avvicinando alle sue emozioni e osi esprimerle senza dover ricorrere ai sintomi per comunicare. Seguono sedute di intensa comunicazione emotiva, di scoperte dolorose, ma anche illuminanti e arricchenti per entrambe. Valentina scopre di non accettare i suoi sentimenti perché li pensa brutti e pericolosi e si rende conto che il vomito serve per mascherarli. Riconosce di aver paura di esser contagiata dalle emozioni e perciò vuole che gli altri siano pietrificati, la rassicura sapere che l’esterno non è tormentato da battaglie emotive, visto che ne ha già fin troppo del suo sconvolgimento interno.
Arriva, come fulmine a ciel sereno, una telefonata del padre che mi comunica che dovrà subire un’operazione difficile perciò Valentina non potrà venire in terapia finché lui non sarà in grado di accompagnarla. Mi spiace molto questa situazione penosa e interrompere il nostro lavoro. Dopo un mese di silenzio penso di farmi viva, ma come per telepatia, Valentina mi telefonerà spontaneamente, dicendo che non ne poteva più di non sentirmi, che al padre hanno fatto una “deviazione” e che allora ha deciso che verrà in terapia da sola.
Questa decisione, pur fortemente determinata, è molto sofferta, il giorno della seduta telefona che ha paura, pensa di non farcela a venire, tra l’altro “anche settimana prossima non verrò perché ho le mie merde”. Le dico allora di chiamarmi quando se la sentirà. Dopo un quarto d’ora mi richiama, ha deciso che verrà e io andrò a prenderla al metro perché non conosce la strada. “In questi giorni ho dovuto fare tante cose da sola, la mamma stava tanto col papà, io mi arrabbiavo, per fortuna poi dormivamo insieme… mi è stata di aiuto anche la foto di Jacopo, il ragazzo che mi piace di più … ma va tutto male; voglio andare dalla chiromante”.
Non vuole provare sentimenti perché la fanno soffrire, ma col nuovo anno scolastico si innamora di Fulvio, già fidanzato con una ragazza siciliana e l’amore per lui è all’insegna del possesso e del controllo, confonde il voler bene con un rapporto di annullamento e di dedizione assoluta da parte dell’altro, mentre lei non riesce a dare niente di sé, se non le lamentele, le recriminazioni e i rifiuti.
“Le due persone a cui tengo siete tu e Fulvio e voi non avete bisogno di me … non voglio essere strumentalizzata da lui e tu mi tieni solo per lavoro, come alla scuola privata dove ci sono i soldi”. Le chiedo se si ricorda da quanto tempo non mi paga “…non lo so. È da tanto? …”. Nel rapporto con me ripete l’ambivalenza che prova per la madre, io sono la rivale da svilire, ma di cui non può fare a meno. All’inizio del terzo anno di terapia il padre rientra in ospedale ancora per un intervento chirurgico. “… Gli hanno messo un sondino con una pompetta, parla solo dell’ospedale, non mi accompagna più, ci smeno, è un’ingiustizia … Fulvio è felice con la fidanzata, Simona col suo ragazzo, Davide con la sua ragazza, io porto la croce per tutti”.
Le accenno a come le sia difficile provare dolore per la malattia del padre “è vero, non riesco a soffrire per il papà … e poi la mamma è appiccicata a lui, sono diventati una persona sola, insieme sono un gigante…” e in seguito “mi dà fastidio la fisicità di mio padre, soprattutto il vomito che era il mio problema e poi c’è l’odore del sacchetto e la pompetta … non ho nessun uomo, neanche il papà, quel poco che è rimasto se l’è preso la mamma”.
Come una bambina vede solo il suo sentimento e non vuole vedere altro, parla del padre con durezza, con rabbia, con cinismo e questo ammutolisce chi l’ascolta. Il lavoro di riflessione sulle sue modalità di vivere la malattia del padre le permette di prendere coscienza della gravità della malattia e di “ricordare” la verità che si porta dentro attraverso un sogno “sono all’ospedale e mi dicono che il papà ha poche settimane di vita …”. Non vuole lavorare sul sogno perché tanto io non posso capire il papà e lei non può piangere, non l’ha mai fatto.
Lascio allora che Valentina elabori utilizzando i suoi modi e i suoi tempi la gravità della malattia del padre, standole vicina e accogliendo la sua paralisi emotiva. Siamo agli inizi di luglio “ … ho tante cose da dirti, la più importante è che gli esami del papà sono andati male, dovrebbe farsi rioperare per la terza volta, il suo corpo è deteriorato, lui non ce la fa più. Io ho pianto”.