"...ogni qualvolta m'accorgo che mi si va formando intorno alla bocca una piega arcigna; quando sulla mia anima scende un umido, piovigginoso novembre; ... quando l'ipocondria prende il sopravvento su di me ad un punto tale da far sì che debba ricorrere a un forte principio morale per impedirmi di scendere deliberatamente in strada a far saltare via il cappello dalla testa della gente... allora giudico che sia giunto il momento di andar per mare il più presto possibile".
Così medita inquieto Ismaele protagonista del celebre romanzo Moby Dick, per spiegare quella smania che lo coglie e lo spinge a partire per il suo famoso viaggio. Io prendo in prestito le sue parole perché non saprei descrivere meglio quell'uggia che ogni anno, alla fine dell'autunno dorato, mi afferra alla gola e mi ficca dentro un dannato aereo per imbarcarmi, purtroppo senza un fido Quiqueg né un grande Achab con cui confrontarmi, sulla mia personale Pequod.
Quest'anno, e non a caso ho scomodato il più gran libro sulle balene che sia mai stato scritto dopo la sacra Bibbia, sono andato a cercare proprio loro nelle placide acque del mar di Cortez nella bassa California messicana e, come accade a chi insegue con perseveranza i propri sogni o i propri incubi, sono stato accontentato perché le ho incontrate per ben due volte. Ora il viaggio sta per finire e sto tornando verso sud, alla guida di un grosso Dodge a quattro ruote motrici, lungo la Mexico 1, mitica anche perché unica autostrada, (se così si può definire una striscia di asfalto bucherellato e sconnesso), che percorre la penisola della baja California da nordovest a sudest per 1300 km, da Tijuana, al confine con gli USA, a Los Cabos al confine col nulla.
Oggi, verso le tre del pomeriggio, siamo partiti con direzione est verso la costa, lasciandoci alle spalle l’oasi di Kadakaaman dove sorge la Mission San Ignacio, con la sua bellissima chiesa fondata dai missionari gesuiti nella prima metà del Settecento. Lasciata Santa Rosalia, porto minerario francese sul mar di Cortez con la sua iglesia Santa Barbara, una chiesetta di ferro progettata dall’ingegner Eiffel,(proprio quello della torre), e portata qui a dissolversi in ruggine da Parigi, sto guidando sempre verso sud, direzione Loreto e la luce comincia a farsi ambrata e le ombre dei saguari, i cactus giganti che qui chiamano cardon, cominciano ad allungarsi.
Dovete sapere che in inverno, in questa parte del mondo, la luce è particolarmente vivida perché la limpidezza dell’atmosfera, per la scarsissima umidità, è eccezionale ed è proprio verso il tramonto che i colori del paesaggio raggiungono il massimo splendore. Se aggiungete che il panorama, in questo tratto di strada che costeggia il golfo di California, è già di per sé straordinario, l’effetto per un viaggiatore naturalista è dirompente. Le mesas, strane colline dalla cima perfettamente piatta, si stendono a perdita d’occhio fino alle montagne della cordigliera che fa da spina dorsale alla penisola e si elevano da una vera foresta di colossali cactus carnegeia gigantea, i saguari a candelabro, sulla cima dei quali si rifugiano neri avvoltoi, quando il nostro passaggio li costringe a interrompere il loro banchetto costituito dalla carogna di qualche povero coyote trasformato in uno zerbino dalle ruote di uno dei mostruosi Kenworth, i camion che senza sosta percorrono da nord a sud la Baja.
Per un appassionato collezionista di cactacee che da ragazzino frequentava la serra dell’Orto botanico di Bologna dove il professor Lodi aveva raccolto la sua straordinaria collezione di piante grasse, questo è un autentico paradiso. A quel tempo, appena uscivo da scuola, correvo in quella serra dell’Istituto di Agraria dell’Università per sognare i deserti dove vivevano quelle piante così strane e per ricevere dal paziente professore qualche minuscolo spinosissimo getto e, ci credereste? ne conservo ancora qualcuno divenuto grosso e contorto dagli anni e ora, osservando gli esemplari in natura, mi compiaccio per la somiglianza ottenuta perché evidentemente sono stato per loro un buon deserto in cui crescere.
Scarto verso il centro della carreggiata per non schiacciare un serpente aspirante suicida che se ne sta acciambellato sul bordo della strada a godersi l’ultimo sole prima della fredda notte del deserto, mi fermo tra lo sgomento dei compagni di viaggio e scendo a osservarlo: uno splendido esemplare di crotalus enyo, il “baja California rattlesnake”, che suona il suo sonaglio arretrando sulle spire in un folto e impenetrabile cespuglio di opuntia invicta, uno strano ficodindia dalle terribili spine.
Intanto dalla macchina mi fanno fretta perché queste strade non sono sicure di notte, il sole è già basso e Loreto è lontana. Riprendo la guida a malincuore perché, fosse per me, mi addentrerei a girovagare nel deserto a scovare tarantole, serpenti e rare cactacee endemiche ma i miei compagni hanno ragione perché in effetti l’idea di vedermi poi sbucare dal buio una delle onnipresenti mucche vaganti e di investirla a piena velocità non mi alletta per niente. Inoltre, a parte le insidie naturali, bisogna riconoscere che il Messico o almeno l’atmosfera che vi si respira, è davvero cambiata.
Trenta anni fa, quando ci venni la prima volta, tutt’al più potevi incappare in un “robo”, una rapina, o ti poteva capitare di venire fermato dai guerriglieri del subcomandante Marcos, sub perché il comandante supremo è il popolo, che dopo averti spiegato che il pueblo unido hamas sera vencido ti offriva una cerveza e ti lasciava ripartire. Era tutto molto romantico almeno allo sguardo un po’ superficiale del viaggiatore.
Ora i posti di blocco dell’esercito e dei federali, armati di fucili da assalto e di bombe antiuomo, sdraiati dietro sacchi di sabbia ai lati dei frequenti check point con i mitra puntati contro la tua auto, non hanno assolutamente nulla di romantico. Qui, il nuovo millennio ha portato, come in tutto lo stato, una guerra non dichiarata contro i narcotrafficanti e proprio nella Baja, il paradiso delle balene, è in corso la battaglia contro e tra alcune delle più feroci bande di narcos che, dopo la cattura di “el Chapo” Guzman, signore del cartello di Sinaloa sulla costa del continente, si sono riorganizzate e proprio la penisola è diventata la principale via di transito per il mercato degli Stati Uniti non solo di cocaina e di marijuana, ma anche del 75% di tutto il fentanyl, una micidiale nuova droga creata proprio in Messico con sostanze di provenienza cinese.
Ricordo al nostro arrivo nella città di La Paz l’orrenda impressione che mi fece l’albergo che avevamo prenotato, trasformato per motivi che ho preferito non approfondire, in una caserma di agenti federali. Vi assicuro che fare colazione al mattino con il muso di un cane mastino antidroga che ti fissa senza muovere un muscolo mentre al tuo fianco una silenziosa tavolata di agenti federali armati di tutto punto, con passamontagna abbassati ma elmetto bel calato sul testone rasato, beve enormi tazze di caffè bollente e si trangugia fagioli, non è per nulla rassicurante. Poi però, dallo stereo del bestione che arranca sul fianco di una collina, escono le note di Hotel California degli Eagles, una hit degli anni Settanta composta, narra la leggenda, proprio durante un viaggio in Baja della band, in una sosta nell’hotel di Todos Santos che si chiama proprio così: Hotel California.
E allora improvvisamente i pensieri cupi si dissolvono perché oltrepassata la collina, nella luce dorata del tramonto, mi appare, circondata da catene di montagne verdi e viola, baia Concepcion, con le sue acque turchesi e le sue spiagge candide. E rivedendo il mare mi vengono in mente le balene che sono venuto a cercare fino qua e che, come ho detto, ho incontrato due volte.
Il mio primo incontro con loro era un appuntamento previsto perché ogni anno, in questa stagione in tre immense lagune della penisola vicino alla città di Guerrero Negro, si radunano grandi branchi di balene grigie della California che, da ere immemorabili, giungono qui per accoppiarsi e per partorire i loro cuccioli. Questa abitudine le ha portate sull’orlo dell’estinzione perché negli anni Venti del diciannovesimo secolo, Charles Melville Scammon, il più spietato cacciatore di balene che si ricordi, scoprì questa loro usanza e diede il via a una mattanza che, nei primi anni del Novecento, le fece dichiarare estinte.
Grazie al cielo non era vero perché qualcuna era sopravvissuta alla strage e poiché il Messico nel giro di pochi anni bandì la caccia nelle sue acque territoriali, fu permesso alle balene superstiti di crescere e di moltiplicarsi. In seguito le tre baie dove si radunano i cetacei vennero dichiarati “santuari” e così ora sono tornate in gran numero. Si lasciano avvicinare dai turisti che arrivano a bordo di veloci lance e anzi sono proprio le balene che sembra si divertano un mondo a giocare con quei goffi nanerottoli galleggianti che lanciano gridolini di giubilo quando una femmina mostra il suo cuccioletto di tre tonnellate o quando tira fuori il testone incrostato per farsi accarezzare dagli umani estasiati per poi inzupparli fino alle ossa con un colpo di pinna.
Questo comportamento così confidenziale nei nostri confronti è in realtà la cosa più sconcertante di tutte. Si tratta di animali estremamente intelligenti, dotati di una memoria prodigiosa e con capacità di apprendimento straordinarie quindi come fanno a fidarsi di noi che per secoli, giungendo proprio su lance come queste, le abbiamo massacrate? Eppure lo fanno, evidentemente hanno capito che ora non siamo pericolosi e questo spiegherebbe il fatto che non fuggano o che non ci attacchino, ma l’amicizia e addirittura l’attrazione che sembrano provare per noi? Come si spiega? Forse hanno intuito che ci piace vederle comportarsi così e hanno capito che più siamo numerosi a ronzare attorno a loro e più sono al sicuro poiché certamente oggi valgono più da vive che da morte, così proprio noi umani che fino a pochi decenni fa eravamo i loro peggiori nemici siamo ora la loro migliore assicurazione sulla vita.
L’altro con le grandi balene è stato un incontro inatteso ed è avvenuto a Cabo Pulmo, nel sud della penisola, poco prima che il mar di Cortez incontri l’Oceano Pacifico. Il capo è una landa che a qualcuno potrebbe apparire desolata ma che a me è piaciuta moltissimo con le sue strade polverose strette tra colline desertiche, dove bonsai naturali di palo hierro, essenza durissima con cui gli indio scolpiscono statuette apotropaiche, si mescolano a cactus barile così spinosi da meritare il nome latino di ferocactus horridus e agli onnipresenti cardones per poi digradare dolcemente in dune color crema lambite dalle onde del mare.
In realtà, ero arrivato in questo angolo di mondo dimenticato da Dio per fare immersioni che poi, come spesso accade, sono risultate piuttosto deludenti, con poco pesce acqua fredda, torbida e vento gelido. Al termine di una di queste noiose immersioni, mentre rabbrividendo cercavo di sfilarmi la muta subacquea, sento uno strano rumore, come un tonfo gigantesco, e sento il barcaiolo urlare "ballenas!", esco in fretta dal bozzolo nero della muta e faccio appena in tempo a vedere, a non pù di venti metri da me, una enorme coda nera che si inabissa con solennità tra un ribollire di schiuma. Dopo nemmeno dieci secondi un altro colosso emerge in tutta la sua maestà dal mare, sembra bloccarsi a mezz'aria per un secondo, poi, compiuta una mezza piroetta sul suo asse, si tuffa di fianco con un fragore e una grazia inimmaginabile per una creatura cosi grande e giurerei che mentre lo faceva ci stava guardando...
Poco più avanti una madre emerge sfiatando col suo cucciolo... questi sono animali molto diversi da quelli che avevo visto a Guerrero Negro perché queste sono le Megattere, le balene dalle grandi ali e dal canto melodioso. Sono meno giocherellone e amichevoli delle grigie ma in compenso si esibiscono in salti spettacolari brandendo le loro enormi pinne pettorali che sembrano davvero le grandi ali da cui prendono nome. Intanto è scesa la notte e dal buio compaiono le luci di Loreto. E qui, con un profondo senso di colpa per quello che la mia specie ha fatto e continua a fare loro, finisce il mio viaggio e con esso l’incontro con le grandi balene e solo il perdono che sembrano averci donato mi ha finalmente permesso, con gratitudine e reverente meraviglia, di avvicinarmi a loro.