“Caffè?”.
“Sì, il solito, grazie”. “Sciacquatura di piatti in tazza grande?” disse il giovane barista con espressione ironica: “Ma lei dove ha imparato a bere il caffè? In Germania?” aggiunse spudoratamente.
“È una storia lunga” rispose Waldmar senza scomporsi. E si diresse come ogni mattina verso il tavolino accanto alla vetrina.
Pareva un giorno qualunque, eppure per Waldmar si trattava di un giorno speciale: il giorno successivo avrebbe lasciato per sempre il quartiere periferico dove aveva vissuto per oltre quarant’anni e si sarebbe trasferito in centro, proprio di fronte all’anfiteatro romano.
Dalla finestra della sua nuova casa avrebbe goduto della vista delle mura antiche e di uno spettacolare colonnato romano pressoché intatto. Waldmar, che coltivava da sempre la passione per la storia antica, non stava più nella pelle di fronte a quella prospettiva. Mentre sorseggiava con calma il suo caffè si godeva tutte quelle sensazioni mescolate al piacere di essere l’unico a sapere quello che da lì a poco sarebbe successo.
Quando poco piu che ragazzo era venuto al Nord lasciando il piccolo paese dove era nato, Waldmar aveva tirato un sospiro di sollievo. La grande città, è vero, gli procurava una certa inquietudine e del suo futuro ben poco sapeva, ma almeno la gente avrebbe smesso di guardarlo e di salutarlo chiamandolo piccolo Fritz o “il tedesco” a causa del suo nome.
Unico tra i coetanei a non avere un padre e, in più, con quel nome inconsueto Waldmar aveva avuto una infanzia alquanto difficile. A nulla erano valsi i suoi tentativi di svelare il mistero, ogni volta la madre ripeteva le stesse parole: “Il tuo nome è il nome che tuo padre ha scelto per te. Tuo padre è un uomo forte e coraggioso. È un soldato. Presto tornerà ad abbracciarti”. Finché un giorno, aveva circa dieci anni, la vera storia venne fuori.
Fu lo zio Michele, tornato da un lungo periodo all’estero, che cominciò a raccontare del tempo di guerra, di quando l’intera famiglia era sfollata in campagna. Lì ci si sentiva al sicuro, distanti dalla zona dei combattimenti e, cosa non meno importante, c’era la possibilità di avere cibo fresco con regolarità. Un giorno, alla fine dell’estate del '44, si presentarono al casolare due soldati tedeschi, uno gravemente ferito, entrambi visibilmente stanchi e spaventati. All’epoca lo zio Michele aveva dieci anni, la mamma di Waldmar, Maria, sedici. I nonni, mossi da sentimenti di pietas genuini accolsero senza esitazioni i due uomini, sistemandoli nella stalla e rifocillandoli con acqua, pane e frutta fresca. Moritz, il soldato ferito, nonostante le cure premurose di Maria, dopo due giorni, morì. Lo zio Michele raccontò che venne sepolto ai piedi di un ulivo secolare e per l’occasione fu chiamato il vecchio parroco dal paese che però volle essere pagato. Hans, il soldato superstite rimase invece con loro parecchi mesi, chiese di poter avere degli abiti civili e si offrì di dare il suo contributo nel lavoro in campagna.
Nel giro di poco tempo divenne uno di casa. Maria gli insegnò ad esprimersi in italiano. Nell’incertezza del periodo bellico gli esperimenti linguistici di Hans portarono tanti momenti di ilarità in famiglia. Quando un giorno arrivò una jeep con dei soldati americani e la notizia che la guerra era finita tutti temettero per Hans, che potesse venire arrestato e portato via. Il nonno, lestissimo, lo avvertì nascondendolo nella legnaia ed evitò un’ispezione accurata della casa offrendo vino rosso a tutti.
Nessuno avrebbe immaginato che il caro Hans da lì a pochi giorni se ne sarebbe andato. Sul materasso dove dormiva, accanto alla coperta accuratamente ripiegata, una mattina fu trovata una busta che conteneva la sua croce di ferro e una breve lettera: “Maria, perdonami, devo andare, devo scoprire cosa è rimasto della mia famiglia in Germania, ma tornerò. Tornerò”. Nove mesi dopo Maria partoriva un bambino al quale venne dato il nome di Waldmar.
Waldmar non conobbe mai suo padre. Di lui, almeno fisicamente, non ereditò nulla, non l’altezza - rimase piccolo come la madre e lo zio - non gli occhi azzurri - i suoi erano scuri, scuri come quelli del nonno. Non vi erano dubbi, Waldmar appariva in tutto e per tutto un uomo del Sud e, anche qui al Nord, la sua mappa interiore aveva mantenuto riferimenti chiari: la casa materna al paese, la cucina fresca e ombrosa che contrastava con la calura estiva dei campi, il cielo sempre azzurro, terso, il profumo dei mandorli in fiore o del pane appena sfornato, il suono meraviglioso delle espressioni dialettali.
Nonostante ciò per tutta la vita dovette fare i conti con ciò che lo abitava, un mondo di immagini, di nostalgie e di sensazioni che parlavano della Germania. C’erano delle volte in cui la mente e il cuore venivano invase da altre immagini. In quei momenti la luminosità dell’estate diventava insopportabile, i codici dell’ospitalità tra famigliari una rumorosa invasione. Più morbidi e rassicuranti diventavano i cieli grigi dell’autunno al nord, le nuvole, magari mosse da un po' di vento che in certi casi faceva giungere fin sotto il suo naso uno struggente profumo di salsicce, o l’arsura e l’urgenza di una birra fresca.
Fu sempre una convivenza difficile quella tra quei due mondi anche se con gli anni Waldmar capì che lasciarsi abitare da quelle sensazioni era l’unico modo per rimanere in contatto con il padre, quel padre che da qualche parte, lo sentiva, esisteva. Prima o poi si sarebbero incontrati. Quando all’età di vent’anni per la prima volta indossò la divisa da vigile urbano ebbe un brivido nell’abbottonarsi la giacca coi bottoni dorati perché si sentì un po' soldato e ciò lo rese felice.
La vita di Waldmar fu sempre una vita tranquilla e solitaria. Anche nella nuova casa, dopo un breve periodo di assestamento, i giorni avevano subito ritrovato il loro ritmo abitudinario, la sveglia al mattino sempre alla stessa ora, il rituale della barba, una colazione frugale. Poi, una volta vestito, l’uscita e il breve percorso a piedi fino al giornalaio e da lì ancora qualche passo verso il centro attraverso il parco pubblico creato intorno ai resti dell’anfiteatro.
Waldmar si sentiva felice. Aveva anche già individuato una piccola trattoria poco distante e lì con precisione pranzava alle 12.30. A sua insaputa era diventato in breve tempo un riferimento per molte persone del quartiere, la sua routine precisa osservata dall’esterno era meglio di qualsiasi orologio. Alla sera, quando la stagione lo permetteva, teneva aperte le grandi finestre del salotto, girava il divano, si versava del vino rosso e restava lì seduto a guardare il passaggio della gente o a rimirare per ore i capitelli del colonnato romano.
La passione per la storia antica, era forse l’unica cosa che gli interessava veramente. Per lungo tempo tutte le vacanze estive furono l’occasione per visitare luoghi di interesse archeologico, tanto che le immagini delle diverse località ormai si mescolavano creando nella memoria un mitologico luogo indistinto. Da lì a poco, come ogni sera alla stessa ora, Waldmar sarebbe andato a letto e la sua giornata si sarebbe conclusa con la lettura di una aforisma di Goethe, il suo poeta preferito.
La mattina successiva un fatto incredibile scosse la sua giornata. Il tram di linea, che passava ogni giorno sotto le sue finestre, superate le colonne sprofondò in una voragine creatasi all’improvviso nella strada. Si udì un rumore spaventoso di legni spezzati e ferri contorti e nel panico generale dei passanti fu prestato soccorso ai numerosi feriti intrappolati a bordo. Waldmar scese in strada immediatamente e offrì il suo aiuto. Non potè fare a meno di osservare che all’interno della cavità che si era creata c’era un perfetto arco di mattoni, sicuramente opera dell’uomo. Capì subito che si trattava di un ponte, probabilmente di epoca romana e ne ebbe conferma qualche giorno dopo leggendo il giornale.
A quel punto il ritrovamento aveva scatenato la curiosità di moltissime persone: Waldmar in particolare passava l’intera giornata allo scavo. Si appassionò a tal punto che cominciò a saltare l’appuntamento del mattino col giornalaio e certi giorni addirittura si dimenticò del pranzo in trattoria preferendo osservare gli addetti allo scavo. All’imbrunire, felice ma stremato, rincasava. Un pomeriggio però successe un fatto strano. Waldmar si trovava a pochi passi dallo scavo, con lui, come ogni giorno, c’erano molti altri curiosi. Si sentivano gli ordini del capocantiere e i colpi attutiti del piccone di alcuni operai. Pareva una giornata qualsiasi. A un certo punto Waldmar sentì il corpo venir mosso da brividi, il volo di alcune cornacchie in cielo rapì per un istante la sua attenzione. Quando riabbassò lo sguardo notò che il paesaggio di fronte a lui era cambiato, la città intorno pareva completamente scomparsa. Il ponte romano si trovava in piena campagna e si vedevano dei boschetti in lontananza. Un corso d’acqua argentato scorreva più sotto e Waldmar notò che era pieno di pesci.
Fu presto distratto dalle voci concitate di alcune persone. Dall’altra riva si avvicinava lentamente al ponte una figura a cavallo, un uomo con un ampio mantello rosso e un elmo di metallo lucente mentre alcuni uomini e donne, scalzi e miseramente abbigliati erano apparsi, come dal nulla, e si stavano dirigendo verso il cavaliere. Giunti accanto a lui cercarono di bloccarlo e disarcionarlo ma questi rispose sfoderando la spada e aizzando in tutti i modi il cavallo contro gli aggressori.
Waldmar angosciato non riusciva a capire cosa stesse succedendo, istintivamente decise di trovare rifugio sotto il ponte, nascondendosi nell’oscurità e si tuffò nel fiume. Paralizzato dalla paura e temendo per la sua vita attese un tempo che pareva non finire mai fino a quando udì un urlo agghiacciante e voci chiamarsi in una lingua mai sentita, poi di fronte a lui piombò in acqua il corpo senza vita di quello che appariva in tutto e per tutto un centurione romano e il rosso del mantello si mescolò al sangue.
Quando ritornò in sé ritrovò la folla di persone attorno allo scavo ma era passato evidentemente del tempo, il cielo era striato di nuvole rosa, il giorno stava finendo e il cantiere era deserto. Si avviò a grandi passi verso casa senza rispondere al saluto di chi lo riconosceva. Quella notte quasi non riuscì a chiudere occhio.
Il mattino dopo, con stupore di molti degli abitanti della zona, si presentò all’edicola molto tardi e l’edicolante non potè fare a meno di notare che aveva una faccia tirata e la camicia stropicciata del giorno precedente. Evitò di fare domande, in fondo tra loro non c’era confidenza. Tirò fuori l’ultima copia del giornale, che per scrupolo aveva messo da parte, e gliela porse con un sorriso. Nella pagina di cronaca cittadina Waldmar lesse la notizia del ritrovamento di uno scheletro e di una spada all’interno dello scavo del ponte romano. Corse a casa e decise che per qualche tempo sarebbe rimasto tranquillo evitando il cantiere. Gli ultimi avvenimenti lo avevano scosso, il fatto di non riuscire a trovare una spiegazione plausibile lo rendeva profondamente inquieto.
Quella sera si coricò molto presto dimenticandosi di mangiare. Ascoltò le voci provenienti dalle altre case, udì il rumore del traffico farsi sempre più lieve e si addormentò stremato. Passarono i giorni e tornò a frequentare lo scavo e ancora una volta, senza preavviso, Waldmar scivolò nel tempo. È vero, ci furono gli stessi brividi, ma non vi fece caso perché distratto da una coppia di vigili a cavallo che transitavano sulla strada vicino al ponte. Il suono degli zoccoli sull’acciottolato parve all’improvviso aumentare, aumentare come se ci fossero più di due cavalli e ciò che si presentò agli occhi di Waldmar fu una scena stupefacente: un drappello di soldati a cavallo sbucò all’improvviso da una radura ombrosa – ne contò otto in totale - tutti con divise sgargianti e piume azzurre su copricapi scuri. A seguire una carrozza trainata di quattro cavalli bianchi con due cocchieri con redini lunghe e fruste. Uno di loro fece un cenno di saluto rivolto a Waldmar e questi non potè che rispondere alzando la mano.
Quando la carrozza attraversò il ponte uno dei cavalli scartò improvvisamente e per il sobbalzo dalla parte posteriore cadde qualcosa che a Waldmar parve un piccolo baule. L’oggetto rimbalzò sul muretto del ponte e con un tonfo cadde in acqua. Nessuno del gruppo si accorse dell’accaduto tant’è vero che la carrozza proseguì lungo la strada fino a scomparire all’orizzonte. Waldmar prima si accertò che non ci fosse nessuno nei paraggi poi si precipitò sulla riva del fiumiciattolo con l’intenzione di recuperarlo.
Fu a quel punto che si udì una voce severa apostrofarlo “Guardi che l’accesso al cantiere è vietato”: alle sue spalle vide un operaio in canottiera con la faccia abbronzata e dietro di lui una moltitudine di persone e la città intera che si era materializzata. Lo fecero sedere su di una panchina e da un bar qualcuno portò dell’acqua. Due giorni dopo, con mano tremante, Waldmar sfogliò le pagine del giornale e trovò puntuale la notizia che aspettava: “Dallo scavo del ponte romano affiorano stratificati i resti di passaggi avvenuti in varie epoche storiche. Ritrovate nuove armi e un prezioso baule datato 1610 con all’interno posate in argento appartenute presumibilmente a una famiglia nobile diretta fuori città per una colazione all’aperto”.
Passarono i giorni, Waldmar fu preso da una frenesia sconosciuta, cominciò a riordinare puntigliosamente la casa facendo attenzione che tutte le cose fossero pulite e al loro posto. Ripulì il frigorifero, completò i lavaggi del bucato, stirò fino all’ultimo capo la biancheria prima di riporla nei cassetti. Quando giunse il giorno del suo compleanno, il suo settantesimo compleanno, Waldmar si svegliò tranquillo. Era una bellissima giornata di marzo, dopo un lungo periodo di tempo variabile ora si poteva sentire che l’aria si stava riscaldando. Waldmar indossò il suo abito più elegante, esitò sulla scelta dell’abbinamento cravatta/calzini - cosa che non aveva mai fatto prima - si mise un paio di scarpe nuove comprate per l’occasione, e uscì lasciando lungo le scale una scia di dopobarba alla fragranza di zagara. La portinaia che fece in tempo a vederlo all’altezza del portone non riuscì a trattenere un commento: “Oggi succede qualcosa di bello, vero dottor Waldmar?”
Quel giorno in effetti fu un giorno particolare per Waldmar. Raggiunse prima di tutto l’edicola dove, dopo aver acquistato la sua copia del giornale, si trattenne a chiacchierare con fare loquace e spiritoso. Il proprietario dell’edicola notò la cura nel suo abbigliamento e rimase molto incuriosito dalla coloritura dei racconti del suo cliente. Quando seppe del suo nome particolare si affrettò a confidargli che anche lui aveva un legame forte con la cultura germanica perché i suoi nonni paterni erano stati entrambi tedeschi. Risero di gusto e si strinsero la mano ripetutamente. Waldmar chiese anche di pagare il conto mensile per l’acquisto dei quotidiani ma il proprietario del chiosco, rapìto dal piacere dell’incontro, non ne volle sapere. Giunto alla trattoria con largo anticipo Waldmar offrì da bere a tutti i presenti. L’oste, un corpulento signore di origine lucana, fece cenno al cameriere di rinfrescare il tavolo solitamente riservato a Waldmar, il quale, prima di prendere posto, non si trattenne dal visitare la cucina per omaggiare il cuoco e informarsi sul menu del giorno. Quel giorno Waldmar ordinò una bottiglia speciale, mangiò con gusto e lasciò sotto il piattino del conto, una mancia generosa. Tutti notarono la sua parlantina brillante ma educata e l’eleganza dei suoi vestiti.
Dopo pranzo attraversò con passo leggero il parco pubblico e giunto in prossimità del ponte romano si fermò a parlare con gli operai. Ci fu un momento in cui fu tentato di raccontare delle sue misteriose esperienze, poi cambiò idea e si diresse verso una delle panchine del parco. Seduto, chiuse gli occhi e restò ad assaporare il piacere di essere lì in quell’istante. Fu colto da una piacevole sensazione di pienezza e di pace.
Rimase in silenzio per qualche minuto fino a quando una potente esplosione lo scaraventò per terrà. Quando con fatica riuscì ad aprire gli occhi si ritrovò di fronte ad una scena terrificante: tutte le case di fronte a lui e alle sue spalle parevano essersi sbriciolate, in mezzo al fumo e alla polvere vide i contorni indistinti delle persone che correvano urlando, come impazzite. Si udì allora un rombo spaventoso e alle sue spalle sbucò un enorme carro armato che avanzò sulle macerie sbriciolando intere pareti di cemento come fossero di carta. Waldmar sia accorse di essere scalzo e nell’udire alcune raffiche di mitragliatrice si coprì istintivamente la testa. Apparvero in quell’istante due soldati armati di fucile, uno dei due notò la presenza di Waldmar e urlò: “Verflixt! Schau! Ein Kind Komm her!”
Waldmar inizialmente non capì cosa volessero, si alzò in piedi e impaurito tenne alte le braccia. “Wie heisst du?” chiese il soldato. “Waldmar! Mein Name ist Waldmar!” udì una vocina rispondere. “Du heisst wie mein Sohn”. replicò il soldato. “Komm Waldmar, ich bringe dich weg von dieser Hölle” [1] e detto questo afferrò la mano tesa di Waldmar e lo tirò a sé. Waldmar allora si fece piccolo ed ebbe l’impressione di essere diventato improvvisamente leggero. Si ritrovò tra le braccia dell’uomo e appoggiato il viso sul suo collo fu colpito dalla dolcezza del suo odore. Fu un attimo: attraverso gli occhi colmi di lacrime, vide dapprima il sorriso della madre da giovane, due figure abbracciate davanti al mare, poi sprazzi di cielo stellato. Si abbandonò completamente.
Quel giorno Waldmar scomparve senza lasciare traccia. Furono in molti a cercarlo. Il giornalaio andò avanti per settimane a mettere da parte le sue copie del giornale sperando di vederlo ricomparire e la portinaia, dopo lunghe esitazioni, visitò la sua casa trovandola così ordinata da poter confermare a se stessa quello che aveva sempre pensato di Waldmar: si trattava di una persona perbene. Dopo alcuni mesi furono completati i restauri del ponte e seppure su tutte le guide della città venga indicato come “antico ponte romano” nel quartiere ancora oggi è conosciuto con il nome di ponte di Waldmar.
[1] “Accidenti! Guarda! C’è un bambino! Vieni qui! Come ti chiami?”. “Il mio nome è Waldmar”. “Waldmar? Hai lo stesso nome di mio figlio. Vieni Waldmar, vieni con me. Ti porto fuori da questo inferno”.