Al termine di uno degli episodi più intensi e sconcertanti che l'Iliade racconti, l'acheo Diomede e il troiano Glauco rinunciano inaspettatamente a fronteggiarsi in duello. Non è certo viltà la loro, ma un atto reso necessario dall'essersi riconosciuti philoi e, dunque, legati da un patto indissolubile di mutua solidarietà che i loro padri hanno stretto anni prima e che ora esige di essere rinnovato; un patto che chiama i due guerrieri ad una fedeltà ancora più grande di quella dovuta ai rispettivi eserciti di appartenenza, che li obbliga a sospendere le ostilità senza però esaurirsi in quella (seppur irrinunciabile) tregua personale, un gesto totalizzante che si estende nello spazio e nel tempo, travalica i confini stessi della terra di Troia e si proietta nel futuro. Perché questa era la xenia nel mondo antico, una forma di “ospitalità” che nulla aveva di una cortesia occasionale, ma che si configurava piuttosto come un'istituzione tra le più sacre, strumento privilegiato di creazione di quella rete di accordi tra famiglie aristocratiche finalizzata alla salvaguardia di una stabilità politica internazionale quanto più duratura possibile.
Era lo scambio di oggetti a sancire e celebrare la stipula di un simile rapporto. I due contraenti divenivano tali grazie all'acquisizione di symbola, piccoli manufatti di terracotta spezzati in due parti uguali o coppie di oggetti identici, che venivano gelosamente custoditi da entrambe le parti e che, accuratamente trasmessi di generazione in generazione, consentivano di ricostruire l'esistenza di alleanze antichissime anche a distanza di tempo; al momento del congedo, poi, si offrivano vicendevolmente vesti, gioielli, cavalli, vino o qualunque altro bene, a ulteriore solenne convalida del loro eterno inscindibile sodalizio. Ed è così che anche Diomede e Glauco procedono, ricordando gli xeineia kala (Il. VI, v. 218, gli “splendidi doni ospitali”) che i loro avi si erano consegnati e onorandosi a loro volta con altrettanta prontezza (v. 230).
Eppure, il testo mette fortemente in evidenza come in questa operazione si sia verificato qualcosa di eccezionale. “Allora Zeus Cronide levò il senno a Glauco che diede a Diomede Tidide armi d'oro in risposta ad armi di bronzo, un valore di cento buoi in risposta ad un valore di nove buoi” (vv. 234-236). Certo, un cattivo affare quello concluso dallo sprovveduto eroe, una transazione in perdita, un calcolo a dir poco discutibile che il poeta decide di attribuire all'intervento di un dio, esattamente come accade ogniqualvolta i poemi si trovino a dover rappresentare il soccombere dell'uomo di fronte ai suoi impulsi irrazionali. Ma qual è il senso di questa sottolineatura? Perché l'urgenza di rimarcare l'abnorme disparità dell'operazione? Non avrebbe dovuto Glauco sentirsi libero di ossequiare il suo compagno nei termini che riteneva più opportuni?
Agli inizi del '900 l'antropologo francese Marcell Mauss condusse una serie di studi sui comportamenti di alcune società tribali dislocate tra la Nuova Zelanda e le isole della Polinesia, scoprendo curiosamente come la pratica dello scambio di doni rivestisse per loro un ruolo essenziale all'interno di un sistema diversificato di feste e ritualità, organizzate secondo un preciso calendario e volte a regolamentare le interazioni tra individui e gruppi. Ma ciò che di assolutamente sorprendente emerse dalle sue pionieristiche indagini fu che tale pratica funzionava da efficace collante sociale perché assolutamente libera e allo stesso tempo inderogabilmente vincolante; egli, infatti, individuò nel meccanismo del dono l'articolarsi di tre momenti fondamentali (dare - ricevere - contraccambiare), riconoscendo nel terzo e ultimo di questi momenti l'imprescindibile compimento dei primi due.
Tra gli usi delle popolazioni interessate dalle sue ricerche, Mauss rintracciò prove evidenti dell'obbligatorietà di una restituzione che non solo era tenuta a superare in quantità e qualità la portata dell'elargizione che doveva compensare, suscitando così l'aspettativa di un ulteriore contro-dono e innescando quell'infinito susseguirsi di asimmetrie che sole garantiscono della vitalità di una relazione, ma che trascurata costava all'inadempiente donatario gravi perdite in termini di prestigio e rango sociale, addirittura di libertà. Un autentico “circolo virtuoso” in cui il dono smetteva di essere considerato mero oggetto inerte e incarnava piuttosto tutto il valore di quei legami che contribuiva a intrecciare e conservare, caricandosi di un'importanza nevralgica tanto nella promozione di una costante circolazione di beni nel contesto di un'economia pre-monetale quanto nel mantenimento degli equilibri di intere comunità.
Alle stesse conclusioni giunse anni dopo il grande linguista Emile Benveniste che tentò di far luce sulla natura dei circuiti donativi all'interno della cultura indoeuropea, partendo al contrario dall'analisi dettagliata delle parole e degli usi lessicali, la cui abbondanza e varietà era di per sé segno evidente dell'assoluta complessità del fenomeno; nella stessa radice indoeuropea do- convivevano inseparabili entrambe le nozioni del “dare” e del “ricevere”, dal momento che essa rimandava unicamente al semplice movimento dell'“afferrare qualcosa”, suscettibile poi di venire declinato a seconda del contesto e delle intenzioni del soggetto agente come un “afferrare per porgere” (e, dunque, dare) o un “afferrare per ritirare” (e, dunque, ricevere).
Moltissimi furono gli elementi che consentirono a Benveniste di affermare come anche nell'antichità l'aspetto perentorio di un'indispensabile contro-prestazione avesse particolare rilevanza. Accanto a dos, doron, dorea e dosis (che spaziavano da “dono materiale” ad “atto del donare”, comunque disinteressatamente intesi), il greco conosceva dotine che esprimeva al contrario l'idea di un “dono che esige di essere ricambiato” e insieme di uno “che si dà per ricambiare”. Ugualmente a Roma, del tutto diverso dal donum (ancora il “dono disinteressato”) era il munus che indicava indistintamente la “carica pubblica” o la “funzione di prestigio” che un cittadino riceveva e simultaneamente i “privilegi” o gli “spettacoli” che era tenuto a rendere per quanto aveva ricevuto (di qui l'idea di una communitas etimologicamente intesa come “insieme di persone unite da un sistema di onori e oneri”).
Ecco che allora diventa facile comprendere perché una prassi come quella del dono, che gli antropologi fanno rientrare nei comportamenti improntati alla reciprocità, avesse trovato la sua più naturale collocazione nel contesto dell'“ospitalità”, che nel mondo antico rappresentava la forma di relazione compensatoria più radicalizzata e condivisa. Ma, soprattutto, ecco che diventa possibile riconoscere nel commento omerico alla condotta di Glauco la volontà di segnalarla perché perfettamente rispondente a ciò che l'evento del dono rappresenta nella sua essenza. Donare (simbolico o materiale che ne sia il contenuto) equivale ad un salto nel buio, a lanciare una sfida, equivale a comunicare che si vuole entrare in relazione, stabilire un contatto senza la garanzia di riuscirci; è sentirsi appagati per il solo fatto di aver compiuto quel gesto e insieme sperare in un ritorno che non è oggettivamente quantificabile come in una qualunque operazione commerciale, ma che è innegabile esista, fosse anche solo nei termini della riconoscenza che dovrebbe ingenerarsi nel destinatario di quel gesto e che, se anche non può essere imposta per legge, tuttavia soggiace alle richieste non meno stringenti della morale.
Restituire equivale a posizionare una rete sul fondo del baratro, a raccogliere la sfida, equivale ad accettare di intraprendere quella relazione; è rilanciare, osare di più, passare il segno, perché a differenza di quanto avviene in una qualunque operazione commerciale l'obiettivo finale non è rescindere un vincolo destinato a durare il tempo di un affare, ma alimentarne uno nel desiderio che permanga; è agire secondo una logica che non può appartenere alla divinità che non ha nulla da perdere né da ottenere più di quanto non possieda già, ma della quale nessun essere umano può fare a meno.