Ci è dato soltanto nel delirio del linguaggio
Nominare le cose, non conoscerle(Carmelo Bene)
Fa bene ascoltare la voce di Carmelo Bene. Nell’attuale orgia di simulazione, retorica, discorsi, parole. Fa bene ascoltare la voce di Bene. Specialmente se non si pretende di capirlo, tanto meno di imitarlo. Bene ha sempre esposto con grande chiarezza e semplicità il suo percorso e la sua ricerca. Una posizione, la sua, che rifiuta la recita, cioè la citazione di una res. Il rifiuto del teatro quale riferimento di un mondo, quale gioco di finzione, quale volontà di rappresentazione. Proprio perché ciascuno di noi in vita recita, cioè è attore, cioè agisce ed è agito, cioè riferisce dei mondi, media il “detto”, cioè la traccia cadaverica del discorso, di ciò che non può più correre, proprio per questo non si può essere attore in scena. Chiudere i teatri? No.
Carmelo tenta la via più ardua, facendosi esperimento umano. La via, quasi taoista, confuciana, certamente non pensabile senza Plotino, Meister Eckhart, Angelus Silesius, Giovanni della Croce, la via cioè di chi si espone in ascolto della Phonè, quid assoluto che sola dissolve l’esserci. “Il pensiero è sempre pensiero di altro”. Una Phonè, voce, suono, rumore, che viene dall’assenza, dal vuoto, dalla mancanza di Dio, e, quindi, d’io. “L’intensificazione” viene dal lasciar sentire la perdita, l’assenza. Phonè è il regno dell’indicibile, del non comunicabile se non nell’ascolto della stessa Phonè. Operazione che si vuole greca, nel rifarsi alla necessità primigenia del teatro: l’amplificazione/falsificazione della voce tramite le maschere. Necessità per dar spazio e condizione alla sacra manìa dell’accogliere la Phonè.
Il Libro con Genesi inizia con la Phonè. Non più mimesi, non più render conto a un “testo” che viene riportato alla sua proporzione di spartito, rispetto alla musicalità. Nessuno pensa allo spartito quando ascolta la musica. Bene opera poesia, cioè musicalità. Nulla di più incomunicabile. La Phonè di Bene scioglie anche la distinzione fra teoria/prassi, fisica/metafisica. La Phonè quale autismo, autoascolto, autodistruzione dell’Io per lasciar spazio a una soggettività bambina come “onnipotente” è il bambino, ancora libero dall’“Io”.
Il “soggetto” quale assoggettamento, ma solo alla Phonè. Essere posseduti dal linguaggio. Senza il “detto” ma con un narcisistico “dire”, disincarnante. Narcisistico nel senso tecnico-mitologico. Bene ritenta l’ascesi, che è “abbandono”, uscita dall’Io. “Il Santo è colui che solo mi interessi un po’, più che l’artista”. Il poeta non ha scena. La poesia è indisciplinata. Resta solo “l’invocazione”.
La Phonè annichilisce il rappresentabile, il riferibile. Ferire, ferirsi. Non riferirsi. Non più ruoli, dialettica, conflittualità. Esporre una soggettività che accoglie la Phonè, non recitare un’identità. Un “leggere” e un dire che è scordare, smemoria, non ricordo, depensamento, tecnica mistica d’assenza, che apre spazio e respiro fra il passato che non è stato e il futuro che non sarà. La poesia è anti-civile, rifiuta la storia. “Si muore non appena si è smesso di parlare”. “Io non c’ero”, risponde a chi gli chiede se rifiuta tutta la storia del mondo!
Largamente creativo e inventivo è Carmelo nelle tecniche di de-recitazione. In Lorenzaccio utilizza una messa in scena duplicatoria, che rende visibile il ruolo del rumorista/suggeritore, portando così all’evaporazione il “detto” per far emergere il “Lorenzaccio vivente”, altrimenti sottotraccia. In Pentesilea sparisce la scena, solo relitti inadeguati, e il testo è illeggibile, ascoltabile solo nella Phonè che Bene accoglie. Il suo Amleto è teatro di fantasmi che urlano. Come nel suo Riccardo III, opera fra allucinazione e sopravvivenza, segreto e lacerazione. Nel Macbeth usa il microfono, fa il verso all’opera lirica, srotola una benda che annuncia la finzione del sangue; nella Salomè mette in scena Bernini. Forse la sua è l’unica via per invocare ancora. Per non farsi imprigionare nel ruolo testuale-mimetico. Riscrivere… Phonè quale perdersi nell’atto. L’immagine è giocata, smossa, spiazzata, truccata, apertamente rifalsificata; perché solo Phonè si liberi.