Forse non tutti sanno che il grande scrittore francese Alexandre Dumas, autore de I tre moschettieri, di Il conte di Montecristo e altri notissimi romanzi di successo, fu grande amico di Giuseppe Garibaldi. Nel 1860, lo raggiunse a Palermo, e da allora seguì ed accompagnò l’impresa dei Mille fino a Napoli. In quella città Dumas si fermò per circa tre anni e da lì, scrisse come grande corrispondente, ma senza dimenticare la sua qualità di narratore, centinaia di articoli destinati alle riviste parigine e numerosi racconti agli editori di mezza Europa. Quelle pagine sono state di recente pubblicate dall’editore Donzelli nel libro La camorra e altre storie di briganti e la loro lettura è illuminante per una conoscenza “in presa diretta” della realtà dei fenomeni criminali che caratterizzavano la città e gran parte dell’ex regno borbonico. Da acuto osservatore, egli individuò, con rara lucidità, nel decennale malgoverno dei Borboni il fattore principale e determinante dei grandi fenomeni criminali di quel vasto regno, ormai crollato, tanto da presentarli come una sorta di “capi occulti” dei poteri criminali.
Secondo Dumas anche la Chiesa ebbe un ruolo non marginale nel diffondersi e radicarsi del brigantaggio, favorito e incoraggiato dal livello di corruzione toccato da alcuni esponenti del clero. Ne risulta una straordinaria relazione sulla camorra, degna di una vera e propria inchiesta parlamentare odierna, prototipo delle future indagini storiche e sociologiche che seguiranno sino ai nostri giorni. Egli comprende, e ne offre dimostrazione, come la corruzione il malgoverno, le malversazioni e gli abusi del potere, avessero creato le condizioni ideali per la crescita del fenomeno camorristico, sino a divenire una condizione connaturale e necessaria di ogni fenomeno mafioso esistente al mondo. Questo articolo si occuperà in particolare del fenomeno della corruzione, che si trasmise al nuovo Regno d’Italia, quale metodo sistematico di governo, inizialmente limitato a quel Meridione, consegnato da Giuseppe Garibaldi a Vittorio Emanuele II, che si diffuse nel giro di pochi decenni al resto del paese.
Un primo esempio si ritrova nella vicenda, che tanto colpì l’opinione pubblica nazionale, dell’omicidio Notarbartolo. Costui fu direttore generale del Banco di Sicilia e uomo politico nazionale e nella gestione della banca si scontrò con personaggi politici legati alla mafia. Nel 1893, mentre viaggiava in treno da Termini Imerese a Trabia venne ucciso con 27 colpi di coltello da due sicari della mafia. Imputato quale mandante dell’omicidio fu Raffaele Palizzolo, componente del consiglio di amministrazione di quella banca notoriamente colluso con la mafia locale. Il processo fu lungo e travagliato. Il Palizzolo fu condannato dalla Corte d’Assise di Bologna a trenta anni di reclusione, ma la Cassazione annullò la condanna e rinviò il processo davanti alla Corte d’Assise di Firenze dalla quale, nel luglio del 1904, il Palizzolo venne assolto per insufficienza di prove. Quel processo mise in luce i collegamenti tra mafia siciliana e politici locali, gli intrecci corruttivi e di interesse che li legavano.
In quegli stessi anni, a Roma, si scatenava una colossale speculazione edilizia nella costruzione di interi quartieri della città ed in particolare del quartiere Prati, facendo esplodere la “questione morale” che coinvolse persino l’allora Presidente del Consiglio Francesco Crispi e l’intero governo da lui presieduto. Fu in quell’anno (settembre 1897) scrisse al giornale Il Secolo una lettera nella quale invocava per l’Italia una cura che la guarisse “dalla lue dell’affarismo, della speculazione, della corruzione”.
La premessa storica che precede è utile a comprendere come la corruzione non solo abbia accompagnato la storia del nostro paese sin dalla sua nascita ma ne sia divenuta assai presto una costante, una componente strutturale della sua costituzione materiale, della quale oggi constatiamo quotidianamente la vitalità e la capacità pervasiva. La stagione di “Mani pulite” fu per l’opinione pubblica un trauma, dal quale presero vita nuove formazioni politiche e nuovi assetti istituzionali, e sembrò, per un tempo assai breve, che il paese potesse finalmente voltare pagina e ritrovare un clima di legalità, reclamato a gran voce anche dalla coeva tragedia delle stragi del 1992-1993 ad opera di Cosa Nostra e dei “sistemi criminali” ad essa sovraordinati.
Non fu così, purtroppo. I governi della “seconda Repubblica” non furono migliori di quella precedente, tutt’altro. Smisero persino l’abito della correttezza formale e non esitarono a promulgare una serie di leggi dirette a tutelare l’impunità sostanziale, inaugurando la stagione delle “leggi vergogna” o “ad personam”, in parte smantellati dalla Corte costituzionale, che tuttavia lasciarono tracce profonde nel costume morale del paese in tema di prescrizione, conflitto di interessi, tentativi di depotenziare l’operato della giurisdizione civile e penale. Anche quella stagione ha conosciuto, nel 2011, il suo epilogo, almeno sino all’esito della prossima consultazione elettorale, ma questo non ha inciso in maniera significativa se non a livello normativo, con la nuova disciplina dei reati di concussione e corruzione, e il ripristino del reato di falso in bilancio, l’istituzione dell’ANAC (Agenzia nazionale Anticorruzione). E tuttavia non si può certo dire che la corruzione sia sotto controllo. Il Report di Transparency international per il 2017 colloca l’Italia al 60° posto nel confronto con 176 paesi. Appena sufficiente la legislazione che, nonostante l'approvazione di nuove leggi, è carente nella protezione di chi denuncia e sul problema delle attività di lobbying.
Ancora peggiore il confronto con altri paesi europei; siamo al terzultimo posto, seguiti da Grecia e Bulgaria. Anche in Italia la percezione di vivere in un paese ad alto tasso di corruzione è altissima, e se anche il costo della corruzione poggia, circa cento miliardi di euro, poggia su basi empiriche non del tutto affidabili, è anche vero che vi è un’alta percentuale di fenomeni corruttivi sommersi, che, o non vengono proprio in evidenza, oppure non si traducono in condanne penali, perché cancellati dalla prescrizione o dall’indulgenza del sistema giustizia. La percentuale di detenuti in espiazione di pena per condanne riportate per reati di corruzione è irrilevante, visto che si attesta intorno alla metà dell’1% della popolazione carceraria, mettendo insieme i condannati per corruzione, concussione e peculato. Preoccupa la diffusione del fenomeno all’interno della magistratura, se è vero che nel giro di qualche anno il CSM si è trovato ad affrontare sette-otto casi di magistrati (sia giudicanti che pubblici ministeri) coinvolti in vicende corruttive anche d i grande rilievo. La corruzione, nel solco della tradizione post-unitaria, accennata in apertura, diviene sempre di più una componente strutturale della costituzione materiale, dell’ordinamento occulto, ma reale, che governa il sistema degli appalti di opere, servizi e forniture, le assunzioni, le promozioni, le concessioni pubbliche, componente che ne assicura, quasi fosse un lubrificante, il funzionamento. Senza di essa, le procedure invece di accelerare, si incepperebbero, il sistema rischierebbe di andare in blocco.
Il problema si è da qualche decennio amplificato con l’ingresso del sistema mafioso, che ha adottato anch’esso la corruzione come strumento di penetrazione nel mondo degli affari, della politica, della pubblica amministrazione. Lo aveva già fatto nel corso della sua lunga storia, e con successo, solo che adesso lo fa nella nuova veste di mafia imprenditrice, nuovo soggetto economico. Ne ha ritrovato le condizioni favorevoli di oltre un secolo fa. Debolezza del potere politico, corruzione dilagante, illegalità diffusa. Essendo entrata in questo mondo, la mafia ne ha mutuato i metodi e quello della corruzione era il più comodo, rapido e indolore per raggiungere i risultati affidati in passato alla violenza e all’intimidazione. Si diceva metodo indolore, perché condiviso tra le parti “contraenti”, non lascia indietro vittime, crea invece complicità e copertura reciproca. Il controllo del mercato della cocaina le consente di avere la disponibilità di una merce di scambio, spesso più apprezzata del denaro; non a caso, mentre lo spaccio di strada è ormai affidato alle bande di immigrati di varia nazionalità che operano nel nostro paese, le “consegne” agli esponenti del potere politico, affaristico e imprenditoriale, sono curate direttamente da uomini della ‘ndrangheta, che acquisiscono in tal modo una potentissima arma di condizionamento e di ricatto. La corruzione si salda al potere mafioso, diviene il grimaldello per aprire le porte della finanza e del potere, in Italia, come in Europa, nel mondo intero. L’era mafiosa è iniziata; la sua moneta la cocaina, la sua arma più sofisticata la corruzione.