Chi non ha mai ascoltato una canzone napoletana e chi, anche non napoletano, non l’ha qualche volta canticchiata? Alcune hanno avuto tale successo da rappresentare addirittura l’Italia all’estero, come è accaduto, per esempio, a ‘O sole mio, diventata un successo di Elvis Presley nel 1960 col titolo It’s now or never, che dell’originario testo napoletano non conservava nulla. Per non dire di un’altra hit di Presley, Surrender, che, sulle note della celebre Torna a Surriento, gioca sull’assonanza di surrender – arrendersi – col nome della città e celebra un amore che nessun collegamento sembra avere con quel meraviglioso posto.
Sorrento ritorna molti anni dopo come scenario della famosissima Caruso, incisa da Lucio Dalla nel 1986: tra i suoi versi di grande intensità lirica irrompe la parafrasi di una celebre canzone napoletana. E quante volte il suo successo è stato determinato dall’ingresso nel repertorio di tantissimi tenori: da Enrico Caruso a Tito Schipa, da Giuseppe di Stefano a Luciano Pavarotti, solo per citarne qualcuno.
Per diciotto ininterrotti anni il Festival della Canzone Napoletana, dal 1953 al 1970, è trasmesso dalla Rai con un seguito forse non inferiore a quello di Sanremo, prima di passare il testimone a una rete privata, chiudendo in bellezza un lungo e seguito ciclo canoro con la vittoria di Peppino di Capri che alla canzone napoletana ha dato una nuova impronta di modernità.
Una lunghissima storia che ha radici antiche, quella della canzone napoletana, che ha annoverato tra i suoi autori anche musicisti di rango e ha attraversato tanti anni non rinnegando mai le sue origini ma rinnovandosi continuamente, incontrando anche il jazz, lo swing, il rock e il blues, rendendo alla fine noi napoletani orgogliosi, forse troppo, del nostro patrimonio canoro.
Ma c’è un’insidia nascosta nei suoi testi, anche quelli più antichi e celebrati, a scoprire la quale può aiutarci una pagina di Anna Maria Ortese del suo indimenticabile Il mare non bagna Napoli del lontano 1953. “Esiste, nelle estreme e più lucenti terre del Sud – scrive la Ortese - un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione; un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni… Buona parte di questa natura, di questo genio materno e conservatore, occupa la stessa specie dell’uomo e la tiene oppressa nel sonno”. [1]
Il sonno, anche il dormire senza sogni, sembra una costante ricorrente della condizione della donna nelle canzoni. Dormi, dice l’amante alla sua Carmela, perché il meglio della vita è il dormire. E sono tantissimi gli esempi di fanciulle che dormono insensibili alla serenata e alla voce degli appassionati amanti che insistono con i loro approcci. Gli amanti sono in un meraviglioso giardino pervaso dagli inebrianti odori della natura e il vento passando sfiora il vezzoso ricciolo sulla fronte della ragazza; lui vorrebbe baciarla, ma lei dorme e l’innamorato non ha cuore di svegliarla, non restandogli altro da fare che addormentarsi respirando il suo alito. A Marechiaro, meraviglioso e celeberrimo sito napoletano, spunta la luna, una leggera brezza sfiora le onde e persino i pesci fanno l’amore; lui guarda la finestra chiusa della sua bella Carolina, che dorme profondamente e non si sveglia nonostante i suoi ripetuti inviti. Un altro giovane, appassionato e disperato, intona una meravigliosa serenata, così bella che persino le stelle scendono ad ascoltarlo e a esprimere il loro apprezzamento; ma anche queste “finestrelle” non si apriranno mai. Un altro spasimante grida di notte alla donna che lo ha lasciato: “Stai pure sveglia, sei vuoi stare sveglia, ma fingi di dormire a sonno pieno”.
Ma la maledizione del sonno si abbatte anche sull’uomo. Lui implora: “Apriti, finestra, fammi affacciare Maria perché sto in mezzo alla strada smanioso di vederla”. Alla fine questa volta, evviva, Maria si affaccia; ma, lui, udite udite, non non esprime il desiderio di fare l’amore, ma solo addormentarsi abbracciato a lei. E non si contano i pescatori, che invece di pensare a tirare le reti, si addormentano; qualcuno addirittura chiede di non essere svegliato e di morire in sonno.
È il 1887. Salvatore di Giacomo scrive i versi di una bellissima canzone: La luna nuova. La luna stende sul mare una fascia di argento fino e il marinaro si addormenta nella barca con la rete in braccio. Il coro invita l’uomo a non dormire, a svegliarsi e a vuotare la rete ormai piena. Ma lui non si sveglia perché sta sognando l’innamorata; il mare ne è così commosso che se ne sta “zitto e quieto” e persino la luna ne è rimasta incantata. Ma la canzone termina con un inascoltato monito, alla città che pure si è addormentata: “Svegliati, Napoli! Perché tu dormi e sogni lacrime amare. Svegliati, Napoli”.
Il sonno, il sonno implacabile, così severamente accusato da Anna Maria Ortese, continua a dominare nelle nostre canzoni assai a lungo. Nel 1960 vince al Festival di Napoli la canzone Serenata a Mergellina. È la solita storia del barcaiolo addormentato che chiede al mare di quell’incantevole luogo: “In questa barca fammi sognare, voga tu per me, non mi svegliare”.
Perfino l’Equipe 84 nel 1964 con Notte senza fine si cimenta col napoletano. I quattro ragazzi con un accento partenopeo per la verità un po’ approssimativo e goffo, cantano: “Non mi svegliare, lasciami questo sonno. Fammi restare incatenato a questo sonno”.
Sembra che ci sia, insomma, nei testi di tantissime canzoni l’invito alla rinuncia e al fatalismo nei quali smorzare e annientare qualunque tentativo di azione e reazione: “Basta che c’è ci sia il sole, che c’è rimasto il mare, una fanciulla cuore a cuore e una canzone per cantare”; mentre un’altra canzone celebra la spensieratezza della serata di un garrulo irresponsabile: “Canto qui fu Napoli, nessuno è migliore di me, domani penso ai debiti, stasera sono un re!”.
Nel 1986, Raffaele La Capria pubblica uno dei suoi libri più belli, L’armonia perduta. Si è persa – scrive La Capria – un’armonia che ha sempre contraddistinto la cultura napoletana, spentasi del tutto con l’infelice esito della rivoluzione partenopea del 1799, annegata nel sangue. La borghesia napoletana, terrorizzata da quello che è sempre stata capace di fare la plebe, ha deciso di stordirla, addormentarla e così tenerla buona con “il flauto dolce del dialetto”.
Al falso mito delle cose belle di una volta reagisce finalmente con ironia Pino Daniele nel 1977 con la celebre Tazzulella ‘e cafè, denunciando che quelli che dovrebbero darci una mano si mangiano la città e ci abbuffano di caffè e, perciò, di retorica e di luoghi comuni. Nello stesso anno Pino Daniele la fa finalmente finita con l’esaltazione dell’eterna bellezza della città, avvertendoci che in realtà Napoli altro non è “che una carta sporca, e nessuno se ne importa”.
Poi nel 2002 una reazione al fatalismo soporifero di tanta parte della tradizione canora. Irrompe C’era una volta... scugnizzi di Claudio Mattone, che propone nuovi modelli musicali, nuovi testi e nuovi temi, riscuotendo enorme successo anche fuori Napoli, nonostante certe difficoltà di approccio con un dialetto strettissimo fatto spesso di parole intraducibili. La accoglienza trionfale anche presso chi non consce il napoletano ci ha ricordato un film musicale di qualche tempo, West Side Story: non sempre afferravamo le parole dei testi cantati in inglese, ma recepivamo con forte emozione il senso della tragedia incombente tra i giovani disperati del West Side divisi dal razzismo.
C’era una volta... scugnizzi reagisce alla rinuncia, al rifugio nel fatalismo, a certa apologia della povertà, al piacere di non aver nulla se non il sole e il mare, alla rassegnazione del “Ch’aggi’ ‘a fa’?” (che posso farci?), contrapponendo la forza della reazione e la volontà di cambiare, affidata a giovani combattivi, spesso recuperati da strati sociali disperati, opponendo nuovi valori umani agli stereotipi folklorici e al virus malefico della camorra.
Forse qualcosa sta cominciando a cambiare, forse quella scossa alla città - “Svegliati Napoli!” - che nel lontanissimo 1887 Salvatore di Giacomo si augurava, sta per arrivare.
[1] Anna Maria Ortese. Il mare non bagna Napoli. Milano, Adelphi, 1994, pag. 117
[2] Raffaele La Capria. L’armonia perduta. Milano, Mondadori, 1986.