“In fabbrica, sui cantieri, quando il corpo esegue e basta, si piega a uno sforzo meccanico, ripete, mi accorgo che la testa non è il comando, ma il cane del corpo, che tiene compagnia e gli fa da guardia. [...] Sembra così saggio, il corpo, che mai potrò abituarmi ad abitare dentro uno scheletro così sapiente di fatica. Non è nostro il corpo, appartiene invece a un'antichità che ce lo ha prestato dopo averlo perfezionato in millenni di usura, sforzo, resistenza. Una catena innumerevole di antenati ci consegna una macchina rifinita da abitare, metà casa metà officina. E riusciamo a conoscerla solo quando la sottoponiamo al carico di lavoro”.
(Erri De Luca, Sulla traccia di Nives)
La galleria bolognese P420 con la curatela di João Laia sceglie di mostrare al pubblico un dialogo prezioso, tra scultura e fotografia in grado di restituirci un’immagine complessa di corpo, da noumeno a fenomeno, tra astrazione e rappresentazione tra le due o le tre dimensioni.
June Crespo e John Coplans non solo condividono le iniziali di nome e cognome ma anche uno spiccato interesse per la fisicità del micro e macro cosmo. Nelle due sale della galleria si alternano scatti in bianco e nero dell’artista, critico nonché uno dei fondatori di “Artforum”, John Coplans, e i frammenti scultorei della giovane June Crespo, opere del tutto inedite e prodotte durante il soggiorno a Bologna, dopo la residenza conclusa presso il De Ateliers di Amsterdam.
Coplans scattò la sua prima foto nel 1978 preferendo già da subito l’impiego di una polaroid in bianco e nero per ritrarre esclusivamente il proprio corpo nudo, escludendo la testa. Ed ecco il sorprendente contrasto innescato dall’artista: la decisione di escludere il volto, che oggi ritrova un significato ancora più importante nell’era del selfie imperante. Un corpo usurato, imperfetto, affaticato, vissuto, un corpo carico di esistenza e di lavoro, un “corpo officina”, per riprendere le parole iniziali di Erri De Luca, quello di Coplans è un corpo maledettamente sincero, senza filtri o maschere, di una bellezza nuda, pura e cruda, l’artista sceglie di spogliarsi intimamente attraverso la fotografia, e lo fa creando degli autentici paesaggi di forme e posizioni, scegliendo ingrandimenti di mani, di piedi, di gambe o di schiena, come se quegli interstizi di carne potessero svelarci il mistero criptico che giace nell’alito della vita. Ogni ruga è riga di una scrittura satura di esistenza; l’esistenza di un uomo che ha dedicato la sua vita all’arte: dai primi esperimenti di pittura influenzati dal tachisme e dall’espressionismo astratto, alla scrittura quella del critico e del direttore di una delle testate più storiche di sempre.
Rimaniamo sopraffatti dall’onestà con cui l’artista sceglie di presentarsi per l’eternità, una scelta quasi politica, spirituale, come dimostrare che l’eterna giovinezza e bellezza nel quale la società consumistica istiga e relega sia una esilarante e grossa menzogna.
Coplans si mostra mostruoso, primordiale, attraverso le sue fotografie solo per porzioni, per dettagli, per pagine, l’assenza di un volto rende quel corpo allo stesso tempo unico e anonimo, facendo così di una storia individuale una storia collettiva, universale, improvvisamente quelle unghie scalcinate o quelle mani stanche possono diventare l’emblema della saggezza assoluta, del sapere, della carne, della vita.
E interessante diviene il punto di vista grottesco che l’artista adotta, come sottolineato anche nel testo critico di Laia: “alludendo anche alla narrativa medioevale: all’esperienza spaventosa rappresentata dal non sapere che cosa sia il corpo e in quale parte di esso si nasconda l’umanità”.
Coplans da grande maestro sceglie di eleggere l’imperfezione come protagonista, rendendola però esteticamente impeccabile, come un altro insuperabile artista dell’armonia e del nudo: Robert Mapplethorpe. In Coplans c’è ovviamente una logica discorsiva differente nella scelta dei soggetti, ma quello che lega entrambi è sicuramente la cura che investono sulla dedizione formale, sulla compostezza e sulla magniloquenza soppesata. Un paradosso certamente, come quello riscontrabile nelle sculture di June Crespo che mettono in pratica la loro dicotomia nell’impiego dei materiali utilizzati. L’artista infatti riesce a coniugare tessuto e cemento insieme, senza alcuna difficoltà, come elementi legati da una stessa tensione, una stessa sorte. Metallo, punte di trapano, sistemi di riscaldamento, indumenti, grandi forme che evocano vasi, telai e finestre: tutto quello che circonda il corpo, per June Crespo diviene corpo.
Ed è qui la bellezza: l’occhio o meglio la mano dell’artista, plasma matericamente questa idea di contagio e fusione. E le sue sculture sono autentici collassi materici che inglobano e intersecano varie dimensioni strutturali, differenti metamorfosi in continua estensione e tensione. Una “kafkiana” dedita all’esplorazione corporea del mondo. Tra penetrazioni e allungamenti astratti gli oggetti si ibridano e si mescolano tra loro per costituire una nuova entità fisica, corporale.
I corpi della Crespo sono anch’essi “corpi officina”: contemporanei, erotici, complessi e fragili, contraddittori, e si dispongono nello spazio verticalmente o orizzontalmente come meteore, sembrano arrivare da un'altra galassia, per portare l’osservatore poi a danzare attorno ad esse, a girare intorno, come alla conquista di un’isola; questo arcipelago scultoreo ci lascia un po’ alla deriva, criticamente.
E la forza che accomuna John Coplans e June Crespo è la monumentalità virulenta della forma, come dolmen e menhir, i materiali scultorei e le corporalità fotografiche si riflettono nella nostra immaginazione, riecheggiando in infinite possibilità di ri-leggere la nostra isola-corpo.