Freud ha definito il lavoro dello psicoanalista, del politico e del genitore una professione impossibile nel senso che mette di fronte a dei compiti davvero improbi dove occorre tollerare dubbi, incertezze, rinunciare a ideali di “perfezione”, elaborare queste ferite narcisistiche per accettare la dimensione umana del limite. Non a caso un illuminato psicoanalista come Winnicott definisce “madre sufficientemente buona” chi assolve la funzione genitoriale primaria in maniera adeguata. Ai giorni nostri il rapporto tra genitori e figli è ancora più complesso.
Incontro con emozione le parole di una donna che narra la sua esperienza di madre con figlia afflitta dal panico, partendo dai primordi della loro relazione. Ecco la loro storia.
Iniziamo dai primordi: come ricordi la gravidanza di Lucrezia, quali sensazioni, quali pensieri, quali fantasie?
Quello che ricordo era una sensazione di benessere quando aspettavo Lucrezia sia perché volevo bambini, (anche se pensavo a un figlio maschio all'inizio) e sia perché a parte i primi 2 mesi sono sempre stata bene, ero come un albero che metteva i frutti. Ho insegnato fino all'ottavo mese. Ho patito solo un gran caldo che mi stremava. La gravidanza era una cosa che mi faceva sentire parte della natura; durante il parto ho provato emozioni contraddittorie, avevo tanta paura perché mi chiedevo come potesse uscire la bambina, c'era la sensazione di poter morire tutte e due e non ho mai avuto una paura più grande e mi sentivo un po' abbandonata a me stessa. In più c'è stato l'imprevisto che il mio ginecologo era in ferie ed è stato sostituito da un altro con mani da meccanico d'auto, agitato e che mi ha fatto un male bestiale. Invece la cosa positivissima sono state le spinte, movimenti del corpo spontanei, e allora lì mi sono sentita parte di un disegno molto più grande di me, mi sono sentita parte di una forza potente, mi sono detta “è la natura che ci pensa”, la grande madre a cui mi sono abbandonata e senza più paura. Però è stato negativo il momento dell'uscita della bambina che era molto grossa, e il ginecologo ha fatto manovre dolorose, con le nocche delle mani mi ha fatto lividi che sono durati almeno 16 giorni, poi mi hanno dovuto tagliare. Ho fatto pochissime fantasie sul come avrebbe potuto essere, era come un dono che mi veniva fatto.
Come sono stati i primi approcci tra di voi?
Ho sentito il piacere di questo corpicino, il toccarla, il lavarla, il tenerla in braccio era un grande piacere, così come l'allattamento, fatto naturale che non dipendeva da me, non avevo l'ansia di rovinarmi il seno, ero stupita che senza fare niente potevo dare questo latte, infinito, dolce, ma ho avuto le ragadi che mi hanno impressionato e Fatto dispiacere perché pensavo che Lucrezia dovesse fare molta fatica; e poi mi facevano male e questo mi faceva arrabbiare perché disturbavano il piacere reciproco.. Dopo il primo mese le cose sono andate meglio. Ma è sorto il problema del pianto notturno, solo quando ha iniziato a mangiare la crema di riso il pianto è cessato e non si è capito il perché.
Ti sei sentita aiutata, supportata da qualcuno o ti sei sentita sola a gestire la tua bambina?
Quei momenti per me erano una disperazione, perché ero sola con la sua sconsolatezza. Il peggio era di giorno, mia mamma non era disponibile ad aiutarmi, ma la notte c'era mio marito e l'abbiamo sempre tenuta in braccio io e lui quando piangeva disperatamente.
Che fatine hai invitato al battesimo della tua principessina?
Sarebbe stato bello se avessi avuto quel pensiero, allora non avevo l'allegoria delle fatine, e il battesimo era una questione assolutamente religiosa, la affidavo alla divinità, “dio pensaci tu”. I miei desideri erano che fosse una bambina libera il più possibile e forse questo l'ha rovinata, è che io non volevo ripetere con lei la relazione avuta con mia madre che mi ha oppresso con la sua ansia. Allora forse più che attenta ai bisogni di Lucrezia ero presa dal non farle ripetere la mia storia. Se potessi dare un consiglio adesso alle madri direi di non proiettare il rapporto che hanno avuto con la propria. Avevo deciso che mia figlia dovesse avere più libertà di quanto ne avessi avuta io, ma non mi accorgevo che questo in realtà era il contrario del dono di libertà, perché c'era un dover essere secondo la mia aspettativa.
Essere diventata mamma come ti ha fatto sentire?
Io volevo dei figli, perché è una cosa naturale, quando sono tornata dalla clinica ho messo la bambina nella culla con ancora l'idea del dono, era come l'adorazione di Gesù Bambino, lì sì c'erano le fate. Ma quando mi sono svegliata la mattina dopo ho avuto un pensiero fulminante, mi sono detta: da questo momento non sarò mai più soltanto un individuo, perché ci sarà sempre lei prima, ho percepito il cambiamento da persona-individuo a persona-in-relazione.
Racconta un po' a mano libera la vostra storia.
Dalla scuola materna al liceo la vedevo vivacissima, estroversa, anche se notavo che esprimeva la nostalgia di me, voleva tornare a casa nonostante le amiche, desiderava la mia presenza e soffriva moltissimo della mia assenza. L'asilo è stata una sofferenza grandissima, la separazione era una tragedia “mamma non andare, quando torni?”, faceva tanti pianti che venivano definiti capricci, anche da mio marito e dalle maestre dell'asilo.
Cosa intuivi di lei? Come la vedevi?
Io intuivo poco, pensavo che bastasse rassicurarla del mio affetto, che non occorresse di più, anch'io era contagiata dalla convinzione che facesse i capricci e che la sua fosse una modalità ricattatoria. Diceva che voleva tornare a casa presto dopo le feste perché stava meglio con me che con le amiche, si divertiva di più con me. Io non sono mai riuscita a punirla. Tra noi è continuato questo suo bisogno di raccontarmi tutto anche da adolescente e questo ha cominciato a spaventarmi e a mettermi a disagio. Non c'era privatezza e senso del segreto, questo è stato il primo campanello d'allarme, ho dovuto bloccarla. C'era qualcosa che non andava ... Avevo intuito che era in preda ad ansie e l'attribuivo ai suoi rapporti amorosi conflittuali; la discriminante è stata la notte in cui doveva partire per le vacanze col suo ragazzo quando l'ho sentita gridare “mamma chi sono io?” La voce conteneva un'angoscia esistenziale che mi ha terrorizzato, allora mi sono rivolta a uno psicologo che conoscevo. E da lì è iniziata per Lucrezia una serie di terapie tutte fallimentari perché le persone di riferimento non erano assolutamente professionali. Anch'io, a un certo punto, ho dovuto mettermi in discussione iniziando un mio percorso d'aiuto. Intanto la nostra relazione idilliaca si era trasformata in una lotta a coltello, le nostre conflittualità erano diventate violente, ma il rapporto con me era sempre intenso, Lorenza non riusciva a staccarsi. Sentivo in maniera intensa il sentimento forte di amore-odio da parte sua. Ho capito che non era sufficiente il percorso terapeutico, non riuscivo a capire il suo malessere, perché io non l'avevo mai provato. Però ho sempre creduto a quello che mi diceva e l'ho tanto abbracciata, poi ho iniziato a documentarmi e a scoprire che il suo star male erano attacchi di panico. Al lavoro è stata sempre bene, era come in uno stato dissociativo. Il lavoro era terapeutico.
Quali aiuti sono stati davvero significativi?
Per Lucrezia l'incontro con un terapeuta junghiano che finalmente ha saputo ascoltarla, contenerla e stabilire una relazione di fiducia, accompagnandola nell'incontro col dolore mentale. Per me sono stati di aiuto le letture e la fiducia che lei avesse le potenzialità per uscirne. In particolare il libro di una psicoanalista sudamericana Jane Bolen Le dee dentro la donna che mi ha rivelato che si può superare il concetto di patologia e il disagio può essere inteso come la manifestazione di una dea interna troppo potente rispetto ad altri aspetti del carattere. Io ho riconosciuto alcune mie parti che potevano danneggiarla se non le controllavo. Anche le mie amiche col loro ascolto e la loro pazienza sono stati dei sostegni essenziali. Tutta la famiglia è stata coinvolta, tutti si sono dati da fare per sostenerla nei momenti più bui. Lentamente Lucrezia mi ha costretto a leggere me stessa, anche attraverso percorsi terapeutici, ma l'ampliamento della mia mente è stato influenzato dalle letture che lei mi proponeva.
Come questa situazione ti ha modificato?
Ho provato un sentimento di impotenza, pensavo di essere in grado come madre di aiutarla ad affrontare la sua sofferenza, invece il suo grido mi ha fatto capire che c'era qualcosa di più e che ci voleva un aiuto esterno, io non potevo farcela da sola. Poi ho capito che certi dolori bisogna accettarli e basta, non si può fuggire, non ci si può sottrarre. Questo dolore dovevo prenderlo dentro di me e viverlo fino in fondo.
Tu sei un'esperta dell'arte dell'insegnare e dell'apprendere, cosa ti permette di apprendere il rapporto con Lucrezia?
Ho dovuto imparare a tollerare i limiti e a riconoscere la potenza delle relazioni che storicamente si sono realizzate nelle famiglie. Ho anche dovuto accettare che non c'è una verità delle relazioni, non c'è una logica causa-effetto, non ci deve essere la ricerca di un colpevole, ho dovuto accettare l'ingiustizia di essere incolpata da lei di cose che io non sentivo di aver fatto.
Quale frase-regalo le vuoi consegnare alla fine di questa chiacchierata?
“Sei diventata una maestra di vita, molto di più, hai ampliato le emozioni e il significato della vita che ho vissuto e del mio di relazionarmi con gli altri”.