Fra poco meno di un mese saremo tutti chiamati alle urne per eleggere deputati e senatori della XVIII legislatura della Repubblica italiana, secondo le previsioni della nuova legge elettorale, il Rosatellum. Il 2018 è iniziato con la consueta e prevedibile corsa allo scranno, con cui politici di ogni colore stanno dando sfoggio delle loro affinate abilità nelle trattative. Ogni leader mira all’agognata soglia di sbarramento del 3% e, come da prassi, non mancano alleanze e coalizioni che credevamo decadute, ma che il magico mondo della politica italiana fa ricomparire. E a ritornare saranno anche decine e decine di volti tutt’altro che ignoti agli elettori, appartenenti a uomini e donne del panorama politico nostrano che a Montecitorio e Palazzo Madama – usando un eufemismo – ci hanno preso la residenza, rinnovando il proprio incarico di mandato in mandato. A poco servirà il nuovo assetto di regole votate in Parlamento per la scelta dei nuovi rappresentanti italiani. Infatti, grazie all’astuta combinazione di collegi uni/plurinominali, liste bloccate e pluricandidature, il Rosatellum assicurerà un posto a tavola a grande parte dei parlamentari uscenti e ricandidatisi.
A partire dal celebre scandalo Tangentopoli, che provocò un forte impatto mediatico oltre che l’indignazione della popolazione, la classe politica ha subito un netto calo di attitudine alla gestione della cosa pubblica. "Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica ha determinato un pauroso peggioramento qualitativo dei politici – dichiarano i ricercatori, fra cui Tito Boeri –. Questo declino va di pari passo con il drammatico abbassamento del livello medio di istruzione. Infine all'aumentato reddito parlamentare peggiora la qualità media degli individui che entrano in politica. Il forte incremento del reddito parlamentare (quattro volte quello medio di un manager privato) ha contribuito al declino della qualità degli eletti". Appare quindi lampante come l’aumento delle retribuzioni per senatori e deputati abbia determinato una vera corsa all’oro, partorendo la triste idea di politica come professione.
Era il 28 gennaio 1919 quando Max Weber tenne a Monaco di Baviera una conferenza intitolata proprio Politik als Beruf (trad. La politica come professione). Nel suo discorso il noto sociologo tedesco sottolineava come la politica non dovesse essere mera professione ma, al contrario, andasse concepita come vera vocazione (facendo anche leva sull’ambivalenza della parola beruf, che in tedesco significa sia mestiere che chiamata). Weber osservava come “O si vive per la politica o si vive della politica” e sul punto si era già espresso Aristotele nella sua Etica Eudemia, scrivendo: “la maggioranza di coloro che si dedicano alla politica ricevono questa denominazione non correttamente: infatti essi non sono politici secondo verità, perché l’uomo politico è colui che sceglie le azioni belle per se stesse, mentre la maggior parte sceglie questo genere di vita in vista delle ricchezze e del desiderio di potere”.
Quale, dunque, il ritratto dell’uomo politico ideale? Un soggetto che viva per la politica, avendo una vocazione? Qualcuno che la guardi come opportunità per contribuire all’amministrazione della res publica piuttosto che come un ambizioso e remunerativo posto fisso? Ebbene, a tal proposito è l’Antica Roma a offrirci un’esemplare storia di vita, che ci porta indietro di quasi tremila anni. Per l’esattezza, quanto segue accadde durante l’età repubblicana dell’Urbe e riguarda un tale Lucio Quinzio Cincinnato. Nato intorno al 520 a.C., questi aveva esordito nella politica romana a seguito della nomina a consul suffectus ossia console supplente, in sostituzione di Publio Valerio Publicola, caduto in battaglia. Questa sua esperienza alla guida della Repubblica durò pochi mesi, a causa dei contrasti a carattere militare che sorsero fra patriziato e plebe.
Secondo quanto riportato dallo storico Tito Livio, Cincinnato si ritrovò in serie ristrettezze economiche per via di suo figlio Cesone. Il giovane – coinvolto in vicende giudiziarie – fuggì in Etruria, costringendo il padre a pagare un’ingente somma ai mallevadori. La cauzione obbligò Cincinnato a vendere tutti i propri beni, lasciandogli le sole e inalienabili terre di famiglia. E fu proprio lì, nei quattro iugeri al di là del Tevere, che egli fece ritorno dopo il breve mandato da console.
Tuttavia, la sua carriera politica non si esaurì subito, perché Roma ebbe bisogno di lui appena due anni dopo. Era il 458 a.C. e i consoli in carica – Lucio Minucio Esquilino Angurino e Gaio Nauzio Rutilo – versavano in gravi difficoltà, non riuscendo a fronteggiare l’impetuosa minaccia degli Equi, al punto che Minucio era rimasto assediato nel suo stesso accampamento. In situazioni di simile delicatezza, l’assetto costituzionale prevedeva la magistratura straordinaria della dittatura, che veniva conferita con decisione unanime di consoli e Senato.
Già distintosi per il proprio acume giuridico e militare, Cincinnato si meritò l’incarico di dittatore. Scrisse Eutropio, “egli, trovandosi al lavoro impegnato nell'aratura, si deterse il sudore, indossò la toga praetexta, accettò la carica, sconfisse i nemici e liberò l'esercito”. L’intervento di Cincinnato fu rapido, efficace ed efficiente. Il dittatore, disponendo del summum imperium, ordinò la cessazione di ogni attività legislativa, giudiziaria e commerciale e si diresse verso l’accampamento di Minucio con soldati, armi, pali e cibo per pochi giorni. Il suo piano era trasformare i nemici da assedianti ad assediati e così, nella battaglia del Monte Algido, sconfisse gli Equi e liberò l’esercito romano. Seguirono i festeggiamenti della vittoria, Cincinnato provvide a spartire il bottino di guerra fra i suoi uomini e tornò ai propri campi. La dittatura avrebbe potuto durare per ben sei mesi e nessun’altra assemblea o magistratura avrebbe potuto farla decadere. Cincinnato, però, ritenne più opportuno restituire l’autorità assoluta e ritirarsi nei suoi campi dopo soli sedici giorni di mandato.
Il suo gesto è rimasto nella storia ed è stato negli anni tramandato come simbolo di modestia e di virtù. Persino Francesco Petrarca gli dedicò una delle biografie raccolte nel De viris illustribus, rappresentandolo come esempio di dedizione alla patria. Dante, invece, lo inserì nel quindicesimo canto del Paradiso, assieme a Cornelia (madre dei Gracchi) come antichi romani dalle condotte di vita sorprendenti. Da dittatore, Cincinnato godeva di grandi poteri e poteva facilmente sfruttare la sua posizione ed influenza politica per continuare una scalata al potere, essere eletto console e migliorare la propria condizione economica. Invece – pur essendo all’altezza dei ruoli – non ritenendosi più utile alla Repubblica, decise di tornare da sua moglie Marcilia ad arare i campi.