Oggi esce come 38° album della carriera, ma in realtà sarebbe stato il 10°. Hitchhiker (registrato l’11 agosto del 1976) è l’ennesima perla che spunta dagli archivi del musicista canadese pluri-ammesso alla “Rock and Roll Hall of Fame” (sia con i Buffalo Springfield che da solista) Neil Young, offrendo la prima stesura di diversi brani divenuti noti all’interno di altri lavori sparsi nel corso del tempo (un tempo anche molto lungo nel caso della title track), alcuni dei quali considerati veri e propri capisaldi del genere folk rock: diventa quindi una sorta di “visione originale” e di “tassello ritrovato”, il “fil rouge” di emozioni che adesso è possibile collegare tra loro e che ci vengono mostrate sotto un’altra luce: più intima, a tratti fragile (di quella fragilità però che è sinonimo di forza), crepuscolare e, qui anche in senso letterale, lunare.
Il disco fu infatti inciso in una notte di plenilunio, pratica condivisa in quegli anni insieme al fido produttore David Briggs - al fianco di Young e dei Crazy Horse per 26 anni - a Malibù, in California, negli studi di Indigo Ranch, in un’unica sessione di registrazione, interrotta giusto da una pausa, diciamo, “lisergica”, a base di birra e qualche altra sostanza “rilassante”. Fatto sta che queste dieci canzoni sembrano nascere in fila e scriversi da sole sulla chitarra acustica (fanno capolino pure l’armonica e, in un solo brano, il pianoforte), vissuta quasi come un “basso continuo” moderno che estemporaneamente tesse armonie e ritmiche adatte a ciascun sentimento espresso da liriche e melodie vocali.
Tolto l’album in coppia con il compagno di tante avventure (con cui troppo spesso andava ai ferri corti) Stephen Stills, Hitchhiker arriva quando era già iniziata la risalita di Zuma (1975) dalla parentesi oscura del famoso trittico che in Tonight’s The Night (1975) aveva visto il momento più buio (come temi, perché artisticamente si tratta di opera altissima). Era quindi uno Young che stava finalmente voltando pagina, che stava trovando il coraggio di uscire dall’ombra e di tingere di colori più tenui la vita, era il passo prima (e fino ad ora mai conosciuto) del ritorno al country di Comes a Time (1978) e a quel clima di serenità “bucolica” (à la Harvest, 1972) in controtendenza all’esplosione del fenomeno punk. Non si pensi a una raccolta di demo, perché le intenzioni dell’artista erano proprio di darlo alle stampe così, chitarra e voce, acustico, asciutto e diretto, una produzione voluta: peccato che la sua etichetta, la Reprise, rifiutò e lo invitò ad andare in studio con una band per un disco più “corposo”, viene da qui American Stars ’n Bars (1977), contenente l’inno Like a Hurricane e che peraltro vide l’inserimento in scaletta della splendida The Old Country Waltz, appunto appartenente a Hitchhiker, ma in versione con gruppo.
La registrazione parte con la voce del cantante che domanda “you ready, Briggs?” e subito ci si connette con quella lontana notte “stralunata”, ricca di suggestioni di ogni tipo finite su nastro, quasi fosse l’obiettivo in grado di trasformare in fotografia un “attimo fuggente”. Pocahontas e Powderfinger mettono subito giù le carte del lavoro: due pezzi inclusi entrambi nel “must have” Rust Never Sleeps (1979), di Young insieme ai Crazy Horse. Benché la prima sia in veste acustica anche nel succitato disco, qui appare ulteriormente spogliata (è la stessa versione ma senza overdub) e comunque sembra non mancarle nulla; Powderfinger senza band diventa un’emozione diversa, un canto confidenziale e drammatico.
E se Captain Kennedy non si differenzia troppo dall’incisione in Hawks & Doves (1980), Ride My Llama con le stesse identiche “armi”, ossia una voce e una chitarra acustica, gioca su chiaroscuri e dinamiche che in parte la ridefiniscono. Dura poco purtroppo. Hitchhiker rivela la sua natura elettrica (così compare su Le Noise, 2010) anche in acustico, stando in piedi benissimo e non perdendo mordente, la politica Campaigner (un’invettiva anti Nixon) diventa finalmente disponibile su album (prima era uscita soltanto nella raccolta Decade, 1977, e priva di un verso), mentre Human Highway è il country dolce e confortante di Comes a Time (il disco che la conterrà) nelle sue linee essenziali, ma per nulla spoglie. Come è country (lo dice il titolo stesso) la chiusura di The Old Country Waltz, qui affidata a piano, voce ed armonica e ad un sentimento che la pur molto bella e curata versione di American Stars ’N Bars non tira fuori in questa misura.
Nel mezzo ci sono poi i due inediti al cento per cento del lavoro, Hawaii e Give Me Strenght, canzoni tutt’altro che di contorno: più “narrativa” la prima, con un ritornello semplice ma che si imprime indelebilmente, e musicale la seconda, grazie ad uno sviluppo articolato, modulazioni e fraseggi vocali affascinanti, di malinconica leggerezza. Eppure in questo nuovo assetto, tutto suona inedito. Un produttore, un musicista, una notte di luna piena e dieci canzoni: ecco Hitchhiker, l’album che mancava.