È buona consuetudine al principio dell’anno fare mente locale sui progetti di vita, sulle intenzioni migliori per portare a termine cose non concluse nell’anno passato, mettere in cantiere nuove idee da realizzarsi nel prossimo futuro o ripescare sogni che hanno riposato nel cassetto per troppo tempo.
Abbiamo assistito in questi ultimi anni a un lento e progressivo ridursi della nostra varietà nella flora urbana, soprattutto se si parla di alberature grandi e piccole. Purtroppo a causa del proliferare di malattie, o della venuta in Italia di nuovi insetti esotici, molte specie sono ormai considerate poco consigliabili, altre vietate in ambito urbano - è accaduto in diverse città per le specie appartenenti alle Rosaceae – alcune escluse perché considerate troppo invadenti e infestanti.
Tutte queste motivazioni unite a una tendenza generalizzata della società contemporanea, e al suo modello dominante, verso l’omologazione, hanno sortito come risultato il proliferarsi di paesaggi uniformi e ripetitivi in cui l’albero è considerato dai progettisti un “modulo”. Ricordo ancora con grande riconoscenza l’insegnamento di un grande cultore della materia, l’arte del paesaggio, Ippolito Pizzetti (1926-2007) che già nei suoi scritti risalenti agli anni ’80 vergava le sue invettive contro architetti poco fantasiosi che tristemente replicavano lunghe sfilate di alberi e arbusti della stessa specie con effetti tristi e montoni. E ricordava, in rare concessioni al privato (Robinson in città. Vita privata di un giardiniere matto, Archinto, 2006), come da bambino fosse stato indispensabile e illuminante il passeggiare con la sua istitutrice tedesca nell’unico giardino milanese vicino casa, oggi Parco Indro Montanelli. "Qui", diceva, "potevo finalmente vedere il mutare della natura durante le sue stagioni, godere delle belle distese candide dei prati innevati sovrastate da scheletriche e maestose forme degli alberi monumentali, come faggi, platani e cipressi calvi".
Sul ricordo di queste letture, così illuminanti per qualsiasi apprendista giardiniere, aspirante paesaggista, appassionato di botanica, riflettevo come fosse esaltante aggirarsi in una città sotto la neve di mattina o in un orto botanico nei giorni natalizi, per scoprire meraviglie inaspettate della natura senza doversi allontanare dalla città. Dai frutti ancora appesi dei cachi e dei gialli cotogni, su rami scuri e lucidi che si riflettono nelle giornate terse di un azzurro scintillante, le rose impavide Leander che emanano un pungente profumo speziato quasi esotico, le bacche blu cobalto dei ligustri, le pietre di rubino sui tralci spogli rose canine.
Ma le alberature più diverse possono ripagarci solamente con le loro forme monumentali svettanti come guardiani assoluti delle vie cittadine: faggi, gingki, metasequoie, platani, aceri, catalpe, fichi, querce, ontani, carpini, noci americani, bagolari, frassini, e molti altri. Purtroppo le città invece ci deludono soprattutto dove l’intervento contemporaneo dell’uomo è importante e frutto di grandi investimenti urbanistici. Un esempio tra tanti è difficile da dimenticare, dopo esservi ritornata negli anni: Le Albere a Trento. Un occasione perduta per poter rivitalizzare un area di accesso alla città così importante: la costruzione del Museo di Storia naturale, attorno al quale si è intervenuti in modo coevo in un area dalle importanti preesistenze storiche: il bellissimo Palazzo delle Albere di antica e imponente fattura.
Ebbene, la modularità delle opere a verde qui è l’emblema del ventesimo secolo, il marchio di un composizione di paesaggio sterile benché ne dicano architetti formati in quelle scuole di architettura. Nessuno può negare che la specie prevalente utilizzata sia il noto Pyrus calleryana ‘Chanticleer’ che è ripetuto in centinaia di esemplari, uno accanto all’altro, della stessa età, dello stesso colore in fioritura in lunghissimi viali che coronano le altrettanto uniformi strutture abitative. Un verde verticale correda ancora in ripetizione ossessiva le tante facciate in legno e vetro: edere che passano da un piano all’altro per centinaia di metri di lunghezza degli edifici.
Ci si chiede perché l’uomo debba accontentarsi dell’omologazione quando la natura mette a disposizione un tale repertorio naturalistico. In ordine a quale principio estetico, stilistico e compositivo la ripetitività dell’elemento costruttivo contribuirebbe a rendere bello e apprezzabile un manufatto architettonico o un giardino, un alberatura o un bosco. Certo uno storico del giardino potrebbe obiettare citando migliaia di esempi illustri di giardini di tal fattura: Versailles, Boboli, Villa Borghese, dove viali e siepi erano costituiti soprattutto da poche specie in ordine rigoroso: lecci, carpini, platani. Ebbene questi esempi rappresentano complessi architettonici e ambientali di grandi dimensioni dove la parte predominante era il paesaggio, il giardino rispetto alla costruzione, dove queste aree, questi grandi giardini costituivano un patrimonio di biodiversità, che oltre ai viali comprendevano boschi, collezioni e arboreti provenienti da tutto il mondo, dotati di serre, casini di caccia, labirinti, peschiere, giardini segreti, valli intere alberate a imitare il bosco, la selva.
Oggi sempre più dobbiamo accontentarci dell’esatto contrario in termini di proporzioni, l’edificio, il costruito, è la parte prevalente, mentre la componente vegetale diventa il corredo, o ancora peggio l’arredo. Da lì il passo è presto fatto, le città sono sempre più svilite dei loro patrimoni arborei che a cento anni dal loro imponente impianto nei primi del Novecento – l’epoca delle grandi trasformazioni urbanistiche che comportarono la costituzione di grandi viali nelle arterie principali dei centri urbani - iniziano a essere vetusti e oggetto di rinnovi. L’auspicio è che il rinnovo, visto che non si è optato nella maggior parte dei casi per una graduale sostituzione (che sarebbe stata auspicabile) dei grandi alberi, venga oculatamente disposto per gradi, anche per avere un patrimonio non più coetaneo delle alberature, poiché si riproporrebbero le stesse problematiche tra qualche decennio. Inoltre, avendo ormai le nostre aziende vivaistiche un enorme catalogo di specie, si dovrebbe favorire quanto più possibile la biodiversità inserendo specie e varietà diverse proprio per evitare uniformità e maggiore probabilità di attacchi massicci da parte di qualche malattia crittogamica o insetto.
Si è vista la devastazione delle palme degli ultimi anni, si è assistito alla decimazione degli olmi con la grafiosi, degli ippocastani con la Cameraria e dei platani ammalati di cancro colorato, questo dovrebbe spingere i tecnici del verde delle città a promuovere una ricerca di specie diverse, quanto più possibile. Se l’Ottocento è stato il secolo d’oro per il collezionismo botanico proprio in Italia, benché fin dal Rinascimento il nostro paese spiccasse per avere i più grandi giardini da collezione e delle università (da Padova a Firenze a Pisa solo per fare qualche esempio), il Novecento ha cancellato un'eredità illustre con l’avvento di un modernismo troppo spesso votato al minimalismo a ogni costo, fatte le debite eccezioni di paesaggisti gloriosi, come Pietro Porcinai, Ippolito Pizzetti, Teresa Parpagliolo Shephard, Lavinia Taverna e Elena Balsari Berrone. Costoro furono oltre che paesaggisti studiosi dell’architettura del paesaggio anche rispettosi della componente ambientale come risorsa ecologica.
Sarebbe troppo ampio in questa sede avventurarsi sulla compagine italiana del paesaggismo contemporaneo e molto complesso riuscire a parlarne compiutamente senza banalizzare il grande apporto di molti protagonisti che hanno segnato la storia dell’architettura del giardino. Ma in questo appuntamento di inizio anno auspicherei che nelle grandi città italiane, così bisognose di una buona architettura del paesaggio, di una pianificazione urbana del verde fondata su principi di sostenibilità effettiva e non di maniera, i cosiddetti “decisori”, amministratori e tecnici, ritornino a un approccio di qualità della progettazione non trascurando le esigenze dei cittadini (spazi verdi vivibili, aperti e sicuri, ricchi di specie), le necessità impellenti di compensazione delle emissioni (scelta di specie arboree opportune ecologicamente efficaci) e l'incremento del numero e della varietà di specie per aumentare la superficie di verde pro capite/abitante nelle aree a rischio di inquinamento da polveri sottili.
Si cerchi la diversità più che l'uniformità di forma e di stile, si riscoprano specie antiche, rare, nuove e se ne studino gli adattamenti all'ambiente urbano in nuove associazioni e combinazioni, ricreando habitat più naturalisticamente compatibili con il contesto esterno delle città. Ecco il buon proposito dell’anno, riuscire a contaminare gli abitanti delle città più difficili dal punto di vista della qualità dell’aria, perché reagiscano, partecipino attivamente alla vita della città, prendano a cuore ciò che gli appartiene in quanto bene comune; la componente verde di una città è di tutti ed è per tutti una risorsa che incide sul benessere psicologico, fisico e soprattutto sociale. In questo senso mi sento di consigliare a chi si occupa di trasformare le nostre città una bella lettura, una guida a scoprire gli alberi della città di un'autrice nota, mai stanca di dare nuovi contributi, la grande studiosa e botanica Paola Lanzara: Gli alberi a Roma. Itinerari di storia e natura tra i monumenti verdi della città (Iacobelli Editore, 2016)... ma ne parleremo nella prossima uscita.