C'è stato un tempo nel quale la parola modulata nel canto e nella recitazione era investita di un valore quasi sacrale, nel quale ad essa si affidava il compito vitale di conservare e di trasmettere l'intera cultura di un popolo. Quando ancora non erano gli occhi, bensì le orecchie il canale privilegiato attraverso cui passava la conoscenza, erano i miti (dal greco mythoi, “racconti” appunto) a incuriosire e incantare le menti di quanti li sentivano declamare dai poeti nelle solenni occasioni ufficiali o semplicemente dalla voce familiare degli avi nell'intimità della propria dimora.
Un patrimonio inestimabile di narrazioni piene di fascino, mai costrette entro i confini di impossibili versioni definitive perché in continua evoluzione attraverso i paesi e le epoche, mai concluse in sé perché saldamente intrecciate in una rete infinita di varianti ricche di agganci, richiami, reciproci condizionamenti; una vera enciclopedia del sapere, che per mezzo di bellissime immagini e di fantasiose costruzioni tentava di dare risposta ai “perché” di un particolare rito, ai “come” di un certo processo fisico, ai “quando” di un determinato uso linguistico, facendo così luce sui pensieri, sulle passioni, sugli atteggiamenti di coloro che di volta in volta contribuivano a plasmarne e arricchirne il contenuto.
Miti che, quando ancora la fissazione per iscritto di quanto veniva abitualmente comunicato per via orale si configurava come l'ultimo atto di una storia lunga secoli, finivano per essere inevitabilmente imparati a memoria, che costituivano essi stessi la più importante e originaria forma di custodia di quella memoria cui i Greci dell'età arcaica si erano così fortemente consacrati da arrivare a trasformarla in una delle loro più importanti e venerate divinità. Perché quello era anche il tempo nel quale la vita dell'uomo non era neppure concepibile senza un costante riferimento alla dimensione del divino, nel quale era consuetudine irrinunciabile sacralizzare le funzioni psicologiche come i più svariati elementi della natura, nel quale i miti non potevano descrivere la struttura dell'universo e la sua evoluzione se non come un ordinato e ininterrotto susseguirsi di prodigiose genealogie.
Esiodo è uno dei poeti più antichi dei quali la tradizione ci abbia concesso di conoscere i versi, il primo nelle cui opere sia stato possibile rintracciare il mythos di questa dea Memoria. Mnemosyne era il suo nome, figlia nientemeno che di Gaia (Terra, dea primordiale comparsa subito dopo Chaos) e Urano (Cielo, a sua volta generatosi da Gaia), deità tra le più vetuste, appartenente alla prima generazione di potenze che fecero la loro comparsa agli albori del mondo. Solare e luminosa presenza al seguito del fulgido Apollo, essa era soprattutto madre delle nove Muse, che erano state da lei concepite nel corso di altrettante notti trascorse con Zeus e alle quali spettava il compito specifico di ispirare e proteggere ogni tipo di espressione artistica, in special modo la poesia; nella forma privilegiata dell'epica come nelle altre sue declinazioni, ad essa era, infatti, riconosciuto il valore di un'autentica istituzione per mezzo della quale gli uomini si sforzavano di superare i limiti della loro finitezza, di prolungare la loro esistenza arginando la minaccia distruttrice del tempo che scorrendo inesorabile s'impossessava voracemente di ogni cosa e che nell'immaginario mitico era incarnato da Lethe, Oblio.
Cupa e tenebrosa emanazione della genia di Notte, Lethe era figlia di Eris (Discordia, nata appunto da Notte), sorella - tra gli altri - di Travaglio, Fame, Rovina. Il suo tratto più significativo era, però, la stretta parentela con Morte e Sonno (nati da Notte prima di Eris), parentela della quale rimane traccia nella famiglia lessicale del nostro “letargo” (che alla radice di lethe aggiunge l'idea di una profonda inerzia data dall'aggettivo argos), e della quale già in Omero (che pur non conosceva ancora Lethe in quanto divinità) era pervaso l'intero regno degli Inferi, dove le ombre incorporee conducevano un'esistenza sbiadita, silenziosa, incosciente. Contro Oblio era, dunque, diretta l'azione di Mnemosyne e delle sue figlie: con un'accorata invocazione alla Musa si apre ciascuno dei poemi omerici, entrambi i lavori che di Esiodo ci sono pervenuti prendono avvio dalla celebrazione delle Muse, della loro veneranda genitrice si facevano interpreti vati e cantori, per i quali l'atto del comporre altro non era se non un ricordare quanto la divinità comunicava loro attraverso il dono dell'ispirazione. Una scienza di origine soprannaturale, che dischiudeva ai suoi depositari l'accesso ad a-letheia, alla “verità” che l'alfa privativo composto con la radice di lethe descriveva precisamente come “negazione” dell'oblio, come sua “assenza”.
Eppure, nell'elaborato e vastissimo impianto mitologico nel quale i Greci di quel tempo riversavano tutta la complessità del loro sentire, non poteva non trovare posto l'irrisolvibile ambivalenza di pulsioni e ragioni che da sempre agita i cuori e le menti degli uomini di ogni tempo. Così Esiodo non si faceva scrupolo di dichiarare in maniera altrettanto perentoria che proprio nell'adempimento della loro missione le Muse sconfinavano sorprendentemente nel territorio di Lethe facendosi lesmosyne kakon, “oblio dei mali”. Esse cantavano (e insegnavano ad altri a cantare a loro volta) le origini del mondo, le stirpi degli dei immortali, le gloriose gesta degli eroi, la nascita dell'umanità e l'eterno esempio degli antenati, consentendo a chiunque se ne lasciasse ammaliare di distrarsi dai propri affanni, di trovare tregua dalle quotidiane miserie, di scordare persino lo strazio di un lutto; e cantando (e insegnando ad altri a cantare), allo stesso tempo aiutavano i destinatari del loro messaggio a fissare piuttosto lo sguardo sull'incredibile flusso di eventi che li aveva preceduti e che ancora era solido fondamento del loro presente, a riscoprirne la grandezza e a sentirsene parte essi stessi, ad affrancarsi almeno un po' dall'assillante pensiero della loro inevitabile fine.
Mnemosyne contro Lethe, dunque, Mnemosyne come lesmosyne; l'una contro l'altra, l'una come l'altra, in un costante gioco di scambi e sovrapposizioni impossibile da districare, dominato dalla stessa sostanziale ambiguità puntualmente riflessa dalle radici linguistiche di cui il greco si serviva per dire l'oblio; se il verbo lanthano (generatosi a partire dal tema lath-/leth-) aveva nella forma passiva il valore specifico di “dimenticare” e “dimenticarsi”, all'attivo esso rimandava piuttosto all'idea dello “stare nascosto”, del “rimanere ignoto”, dello “sfuggire all'osservazione”. Due diverse anime, insomma, come Lethe e lesmosyne (originatesi, tra l'altro, da quell'identica sola radice): una mortifera, oscura forza devastatrice, votata alla cancellazione definitiva e irreversibile della traccia mnemonica; l'altra vitale, costruttiva, capace di sottrarre il ricordo alla vigilanza della coscienza per consentire alla memoria di selezionarlo tra tanti e di farlo poi opportunamente riemergere, fondatrice della memoria stessa e di quell'a-letheia, quella “verità” che gli antichi Greci non avevano trovato altro modo di definire se non insistendo sul preesistente stato di lethe da cui essa continuamente emergeva.