Re-Capture: Room (s) for Imperfection. Basterebbe già il titolo della mostra che la bolognese Gallleriapiù dedica insieme alla curatrice Federica Patti al giovanissimo artista Emilio Vavarella, ricercatore alla Harvard University in Film and Visual Studies and Critical Media Practice, per comprendere anche in minima parte il senso dell’esposizione. All’interno delle tre sale della galleria si sviluppa coerentemente il percorso di ricerca artistica di Vavarella, e pongo l’attenzione e l’accento maggiormente sulla parola ricerca, perché prima che essere artista, Vavarella è uno scrupoloso osservatore della realtà, un ricercatore.
Quale realtà viene presa in esame? Quella realtà post antropocentrica ormai dichiarata, costellata dalla condivisione di una vita assieme a entità non-umane quali animali, oggetti, elementi, concetti, ideologie, tecnologie. E Vavarella indaga, ricerca il frammento, ma soprattutto l’errore, la forza generatrice che ne deriva a prescindere (e questo è il punto importante) dalla volontà umana. Che lo vogliamo o no, è la casualità che governa la maggior parte delle azioni umane, o meglio gran parte di esse, e non sono solo le pellicole “Alleniane” a ricordarcelo, c’è prima di tutto il mondo intero e questo Vavarella lo sa bene. Da buon ricercatore non potrebbe non essere attratto da archivi, ed è proprio una raccolta di filmati trovati su Youtube che prende vita Animal Cinema, prima opera/ambiente e il più recente lavoro video dell’artista, selezionato al St. Louis International Film Festival e al Festival del Cinema di Torino.
La serie di filmati ci narrano sincopaticamente l’uso involontario che differenti animali fanno di una videocamera trovata per puro caso, l’approccio non-umano al mezzo tecnologico è estremamente affascinante sia dal punto di vista estetico: per le riprese dal basso e scordinate, il fruitore riesce per un momento a immedesimarsi nello sguardo inconsapevole dell’altro e questo crea delle visioni autentiche; sia dal punto di vista antropologico: le modalità fruitive e di sviluppo sono estremamente interconnesse, è lecito quindi domandarsi se l’approccio animale–istintuale sia più originario rispetto alla “deformazione adulta” che ognuno di noi ha in base all’educazione imposta dal sistema.
Il rapporto che gli animali instaurano con la videocamera è di pura conoscenza, tant’è che si può paragonare questo approccio a quello che i bambini hanno con il mondo nei primissimi anni della loro vita, non a caso molti animali hanno portato proprio alla bocca il mezzo (come i bimbi con gli oggetti e i giocattoli: il gioco come scoperta e poiesis). Animal Cinema oltre che essere un splendida testimonianza, è anche metafora di un’origine che forse per riflesso condizionato, l’adulto medio ha perso: questa opera è un autentico viaggio (le riprese in perenne movimento) nelle viscere della conoscenza esplorativa della vita. Inoltre questo lavoro mi ha ricordato meravigliosamente Modena vista a livello di cane del 1967-68 di Franco Vaccari, un altro immenso artista che nella sua ricerca si è impegnato nei delicati rapporti che intercorrono tra conoscenza – fruizione – tecnologia – umanità, riassunti poi splendidamente in “inconscio tecnologico”.
Nella seconda sala della galleria The Other Shape of Things riassume meravigliosamente l’idea decadente dell’era tecnologica, non a caso (o forse sì, inconsciamente) la serie nasce nuovamente da un’azione di raccolta e reinterpretazione di scarti ed errori, questa volta i protagonisti sono oggetti errati, sculture sbagliate, stampate male, su tutte un teschio; che Vavarella scannerizza per coglierne il DNA binario, utilizzando una stampante 3D per replicarne la produzione. L’allestimento già di per sé comunicativo, sospende su diversi orizzonti, linee, come partiture, gli autentici glitch materici, dal bianco all’oro, come resti di un’archeologia digitale, effimera. Dalla riconoscibile forma di un teschio bianco, l’opera tramuta sotto una metamorfosi kafkiana 2.0, in altri diversi da sé, repliche che potrebbero espandersi all’infinito, unite dalla bellezza dell’errore.
Si conclude l’esposizione con l’installazione sonora robotica Do you like cyber?, composta da tre altoparlanti parametrici che spingono il suono in una sola direzione, come un laser, rendendo quindi difficile la rilevazione dell’origine. Questa opera è fondamentale nella ricerca di Vavarella perché riassume tutto quello descritto fin qui, ovvero l’interesse in questo gigantoscopico archivio materiale e immateriale che è la vita o ancora meglio, il sistema di relazioni che intercorre tra umano e non–umano. I tre altoparlanti neri, nel loro volo pindarico rotatorio, emettono e trasmettono una serie di messaggi audio utilizzati dai bot sul famoso sito di incontri Ashley Madison che Vavarella ha recuperato dopo l’hackeraggio avvenuto nel 2015. La bellezza consiste nell’atteggiamento indisciplinato, anarchico e soprattutto imprevisto di alcuni risponditori, che senza alcuna ragione apparente, hanno contattato utenti femminili pur non essendo stati programmati per farlo o cominciato a chiacchierare tra di loro. Come ben ha sottolineato Federica Patti nel testo critico della mostra si è venuto a creare un loop sonoro totalmente indifferente alla presenza umana.
L’errore, a prescindere dalla volontà umana, guidato dalla casualità, si manifesta in questa esposizione come dato etico ed estetico, in una wunderkrammer dell’imperfezione; e Vavarella puntuale e curioso ci introduce nei frattali di un’esistenza sempre più fusa e intrecciata lontana da algide dicotomie.
Conversazione con l'artista Emilio Vavarella.
Come definiresti l’essere artista e che ruolo dovrebbe avere o ha nella società contemporanea l’artista, oggi?
L’artista è una di quelle cose che più la si guarda da vicino e meno chiara appare. L’unico modo di definirlo è quello di descriverlo come colui, o colei, che si impegna a fare arte. Al contempo, ciò che si definisce arte e le modalità di realizzazione non hanno una forma fissata nel tempo, perché l’arte è legata a un costante discorso intorno a se stessa e contemporaneamente alla costante riscrittura della propria storia. Infine, il termine ‘arte’ raggruppa svariate tipologie di cose che non hanno caratteristiche o motivazioni omogenee, e il perché si fa arte, essendo strettamente legato a questo flusso di cose, varia nel tempo e nello spazio. Mi vengono in mente tre ruoli per l’artista: (1) Salvaguardare l’inutilità e la non produttività. (2) Investigare nuove possibilità di ricerca e significazione. (3) Produrre forme alternative di autonomia. Allo stesso tempo, dire che l’artista ha uno o più ruoli da ricoprire è molto restrittivo. Ogni artista, attraverso il suo operato, ricopre ruoli più o meno stabili. Ma ciò che lo rende contemporaneo è la capacità di smarcarsi sempre da qualsiasi ruolo gli venga cucito addosso, è la possibilità di calarsi in infiniti ruoli pur mantenendo la propria autonomia.
Quanto reputi sia importante l’ambito della formazione (dalle Università alle Accademie) per un artista? Mi racconti come sono stati e come sono i tuoi anni da studente tra i vari spostamenti, Unibo–Iuav–Harvard?
Quello che è davvero importante è l’avere una comunità di riferimento, e questa la si può trovare ovunque, non dev’essere necessariamente legata a un ambito formativo istituzionale. Allo stesso tempo, però, l’idea stessa di comunità (a qualsiasi livello) sta scomparendo, soppiantata da nuovi equilibri sociali, ritmi produttivi e rilocazioni virtuali. Ed è esattamente in questo contesto che Università e Accademie possono intervenire, offrendo spazi e facilitando scambi e connessioni, ricoprendo un ruolo assolutamente fondamentale e sempre più raro.
Come ti sei avvicinato all’arte?
Chissà che non sia stata l’arte ad avvicinarsi per prima?
Da artista/critico, come definiresti/racconteresti i lavori che hai scelto per questa esposizione dal titolo Re-Capture: Room(s) for Imperfection? Titolo per altro piuttosto incisivo, curioso ed emblematico.
Ho proposto a Gallleriapiù di snodare la mostra su varie linee di produzione e lettura, e la curatrice Federica Patti ha avuto l’arduo compito di annodarne le estremità e definirne le traiettorie. Insieme a Federica abbiamo lavorato su una serie di opere intese come processi transmediali, in cui la forza generatrice dell’errore scardina la concezione comune di coscienza (creativa) e apre a scenari estetici post- e non-human, in una prospettiva non-antropocentrica. Mi interessa molto il tema dell’imperfezione e dell’erroneo, come creazione di nuove forme e come potenza autonoma generativa. Il titolo della mostra allude dunque sia al contenuto delle opere, sia alla volontà di lasciare spazio all’errore all’interno della mia pratica artistica, accettandone l’imprevedibile apporto.
Che rapporto hai con la città in cui vivi e che differenze trovi rispetto all’Italia?
L’anno scorso mi sono trasferito a Cambridge, alle porte di Boston, per iniziare un dottorato di ricerca all’Università di Harvard. Ed essendomi spostato da New York mi viene naturale confrontare questa piccola città universitaria dominata da Harvard e dal MIT, con la bellezza neo-decadente e sempre sfuggente della City americana per eccellenza. Nonostante il cambio di scenario apparentemente radicale, New York resta a poche ore d’auto e in Italia torno spesso e sempre con molto piacere!
Giunti al termine di questa conversazione, agli artisti faccio sempre una domanda … Cosa vorresti che ti chiedessi?
Vorrei che mi chiedessi di chiederti che cosa ti ha colpito di più della mia mostra.
Ultima domanda giuro. Se chiudi gli occhi in questo istante descrivici l’immagine che vedi (se la vedi).
Vedo profilarsi la sagoma della mia prossima opera…