Essere opera significa esporre un mondo
(Martin Heiddeger, L’origine dell’opera d’arte)
Shakespeare è un poeta, Marlowe è un poeta, Corneille e Racine sono poeti, non autori di teatro. Se ne prende atto in quanto tali, non in quanto “autori di teatro”. Altrimenti la cosa sarebbe repellente per quanto mi riguarda, data la mia allergia al teatro.
(Carmelo Bene, Intervista sull’Ulisse di Joyce, 1988)
Ci sono geni orali, visivi, o auditivi. Oppure ci sono geni testuali, letterari. Questa regola non appare infranta neppure recentemente. Dario Fo è un chiaro esempio. Carismatico nella maschera facciale, nell’interpretazione scenica, nell’espressività mimetica e sperimentale, appare scialbo e mediocre nei suoi scritti. Caso parzialmente simile Adriano Celentano. Chi non ha mai sentito la sua voce non può comprendere appieno la bellezza delle sue canzoni e la loro unicità. Senza il colore del suo unico timbro anche la sua opera in parte perde consistenza, valore, intensità.
Oggi abbiamo la fortuna di poter ancora ascoltare Antonio Rezza. Anche lui è un genio. Nel senso che la sua opera appare con tratti di unicità, straordinarietà, intensa efficacia. Un corpoparola come tarantolato. Un abile surfer dei campi semantici e dei codici linguistici. Quello che è voce in Carmelo Bene, metafisica in azione del suono scenico, performatività totale, in Antonio Rezza è movimento, inciampo, singulto, schizzo, abbozzo di affresco. Due “macchine attoriali” fenomenali. Dobbiamo essere grati a Carmelo Bene e ad Antonio Rezza perché compiono un’operazione storica sul linguaggio. Non è un complimento questo, ma una presa d’atto. Storica perché oggi il linguaggio agonizza sclerotizzato in modelli standard imposti televisivamente. La cultura, la coscienza, ridotta a quiz con risposta multipla.
Antonio brucia le incrostazioni di questa agonia involutiva con il fuoco del suo corpo narrante, con la magia della sua spontanea mutaformazione discardinante. Come Carmelo Bene inventa un mondo senza neppure degnare di molta attenzione l’altro pseudo mondo che ci soffoca, satura, inebetisce. Antonio corre come un bambino invasato. Un bambino che sa che c’è la morte. In questo Carmelo e Antonio si muovono in un’atmosfera vergine, altra rispetto alla dimensione di cui Dario Fo fu maestro. Mentre Dario contesta come un guitto una scena di cui è parte, come il buffone e il re che si presuppongono a vicenda, Carmelo e Antonio mettono in scena una “non scena”, imbastiscono un nuovo territorio temporaneo. Nella loro opera, pura poesia incorporante, racconto del non raccontabile, versioni tridimensionali, sensoriali, di ciò che nella scrittura fece Joyce con l’Ulisse, il “mondo sociale”, il “mondo convenzione” non esiste semplicemente, quindi non ha neppure bisogno di essere contestato o distrutto. La loro teologia è negativa. È il linguaggio il campo di battaglia, in una sorta di pre-mondo o retromondo. Il limite di Fo è proprio la materia sociologica e politica di cui non riesce a liberarsi e, quindi, resta “fenomeno di scena”.
Per comprendere Carmelo Bene basta ammirare e contemplare quell’opera che rappresenta veramente la sua perdurante eredità spirituale: la Pentesilea, o Achilleide. Carmelo sceglie Achille e Pentesilea non a caso. Sono immagini estreme, poli paradossali, anche nel e per il Mito. Carmelo sopravvive ancora a lungo perché ha affrontato il Mito, annichilendolo e restandone annichilito. Achille è in realtà anche nel Mito un anti-eroe, o comunque un eroe sfortunato, inchiodato, paralizzato tra i vincoli di opposti assoluti. Mai ha successo con le donne, tutte le sfuggono. L’amore gli è negato e può abbracciare solo il cadavere dell’anima gemella: Pentesilea, come lui sfuggente, fatale a se stessa, quasi decorporizzata.
Deidamia, Ifigenia, Briseide, Polissena, Elena appaiono per Achille come idoli intangibili, e nei sensi dei loro nomi greci c’è odore di morte, fuga, distruzione. Per Achille il Mito è solo il racconto della sua gloria di cui è prigioniero. Achille è il Mito che azzera tutto, e brucia le sue stesse figure. Achille condannato alla solitudine di una quasi-perfezione. Nessuno riesce a trattare Achille. Quasi nessuno si chiama Achille. Solo Carmelo Bene è riuscito a cantare il Mito, a far vivere il Mito nell’epos di colui che è vittima del Mito, fallimento esistenziale mitico: Achille. Solo dopo la morte sull’isola di Leuca, la bianca, sul Mar Nero (altro paradosso) Achille vive felice con l’amata Elena. Una piccola isoletta. Vive felice, ma sempre prigioniero del Racconto dove è passato quale macchina di morte, quale alienato cronico, quale lamento. Il Mito quale lamento solitario. Achille corvo, non aquila.
La Pentesilea di Carmelo Bene è tutto fuorché teatro. Non accade nulla. I testi antichi sono sventrati, mescolati, gettati, naufragati. Il testo della Pentesilea è illeggibile. Volutamente e grammaticalmente illeggibile. Le frasi sospese, lasciate, abbandonate. Tutto un anacoluto, un dire senza contesto né continuabilità. L’opera è la persona di Carmelo Bene. Ogni traccia scritta dell’opera delude, è aliena, come un cadavere rispetto alla vita della persona che lo indossava come corpo. La Pentesilea è voce, è gola, è volto. Il Mito è canto, voce, suono, invocazione senza risposta. Anche Teti invoca e si lamenta. La scena è il volto e la voce. Poesia senza territorio che se stessa. Opera che non lascia il corpo dell’autore, che sparisce, trasformato e annichilito dalla sua stessa opera, non più sua ma per sempre comunque incorporizzata, incorporizzante. Achille giace fermo tra arti di manichini femminili. Non c’è evoluzione. Non c’è soluzione. Eppure percepiamo il Mito. La tragedia, comune. Eppure lo sentiamo credibile, vicino, possibile e già stato. Mito, in quanto ora è possibile.
Similmente non si dà l’opera di Antonio Rezza senza il corpo e la voce di Antonio Rezza. Il testo diverte, è terapeutico in quanto fluidifica la percezione e l’uso del linguaggio ma è altra cosa, povera e misera rispetto all’uomo-opera. Non è difficile capire l’Antonio Rezza scrittore. Basta leggere a perdifiato, solo così lo si può leggere, il suo libro Non cogito, ergo digito, ma non l’allegato finale, dove il genio creativo cade nell’errore fatale di spiegarsi, di autocelebrarsi, fatale per tutti. Errore che induce narrazione mai credibile, come il Mito della “scrittura automatica”, ovviamente impossibile, non esistente.
Lo si può provare analizzando proprio questo testo, il quale non esce dalla grande scia di Achille Campanile, su cui vissero di rendita anche Paolo Villaggio scrittore e Stefano Benni. Medesimi i tratti strutturali. Non esiste testo che non abbia una sua logica interna, una sua struttura, anche il più apparentemente scardinato e scardinante come quelli di Rezza. Questo perché ogni racconto è corpo e il corpo ha regole e strutture. In Non cogito ergo digito ricorrono alcune tecniche e costanti che troviamo anche in Collodi, oltre che negli autori sopra ricordati. La letteralizzazione dell’allegoria o del linguaggio figurato, che è un prendere sul serio la parola fino a farla esplodere nell’assurdo-surreale: siamo a Pechino, la guerra fredda ha abbassato la temperatura… e nel passo della descrizione dei suonatori di fanfara quali fanfaroni. Oppure il discorso ossimorico: ora Carlo si era iscritto ad un corso di fioretto per anziani… (…) solo Giorgio IV affollava l’aula del tribunale… E senza dimenticare l’uso frequente del modulo dell’iperbole (…i vermetti erano circa dodicimila…) e dell’elencazione, tipico della comicità goliardica, che oggi definiamo: demenziale, e questo già dal Gargantuà e Pantagruel fino a Bar Sport, Fantozzi, Arbore e Frassica.
Una scrittura borderline, programmaticamente sgangherata, che sfugge continuamente a un qualsiasi baricentro che non sia il fuggire stesso. In questo (o)scena, alla Carmelo Bene. Per restare narrazione afferra al volo pochi ma riconoscibili appigli strutturali, come le indicazioni di nome e di tempo (anche se un tempo ucronico, senza direzioni), i passaggi nominalistici da un racconto all’altro, e le interessanti “definizioni” dove si fa il verso al dizionario, ma in senso implicitamente ironico: la verdura è quel tipo di alimento che, verde verde, si incunea tra le pieghe dell’organismo a fin di bene… Queste definizioni servono da una parte quali soste rasserenanti, che bilanciano il senso di stordimento del dis-corso in corso, dall’altra servono a conferire un senso nuovo di ri-ordino del mondo narrativo che si abbozza e abbandona ogni 5-6 righe, portando lo scardinamento fine a se stesso nelle sfumature e pieghe del più reazionario dei poteri: quello del lessico, del dizionario.
Ultimi due connotati dello scrivere di Rezza, anche questi già presenti nella tradizione della narrativa comico-surreale, si ritrovano nell’animazione magica dell’oggettuale (e nell’opposta oggettivizzazione della persona) e nel substrato patetico-macabro che spesso affiora tra un colpo di scena e l’altro. Alcuni esempi di personalizzazione dell’oggetto, come in un animismo magico: la papalina respirava a fatica… (…) dopo qualche ora il curaro morì di stenti, demoralizzato… Tifone dorme, ha preso un digestivo… mi incamminai verso la cucina dove la colazione sopiva. Svegliai la colazione… Altri casi, sull’opposta ma complementare oggettivizzazione della persona: … tutti volevano Carlo in casa, tutti attaccavano a Carlo una spina per ricevere energia… le prime tracce di manfrina furono avvistate ad Anversa nel 1964…
Sul tema del patetico-macabro quale substrato della corsa narrativa di Antonio basti ricordare le numerose occasioni narrative in cui accadono uccisioni, decessi, suicidi, funerali, oppure dove si lascia spazio al commovente/poetico, pure in un contesto surreale. Rezza comprende come il raccontare debba continuamente muoversi e possedere una sua fisicità e plausibilità, pur nel delirio fantasmagorico. Il ritmo regge il racconto, e il suo avvoltolarsi nelle pieghe del linguaggio. La performatività scenica domina l’azione narrativa. L’approccio è sempre semanticamente sfocato, obliquo, tremolante come nella storia di Baffo, che ricorda il Naso o lo Starnuto di Cechov.
Rezza però non possiede la contemplatività intellettuale di un Bergonzoni la cui messa in scena è una sorta di metafisica lessicale raffinata, barocca, iperuranica, ma esprime una verve futurista, comunque genuina e assai proattiva. Insomma: nel Rezza scrittore nessuna traccia del genio e del carisma che esplode nella sua evidenza in Antonio Rezza dal vivo, o almeno ripreso in video. Quando l’artista non crede abbastanza nella sua unicità. Mai scrivere, se già sei opera vivente! Carmelo Bene aveva ragione a diffidare della scrittura teatrale e a rifiutare ogni convenzione narrativa. Per automitizzarsi occorre più sacrificio! Più auto annullamento!