Lungo il sentiero assolato che costeggiava il mare vidi un uomo con il suo asino. Era il primo essere umano che incontravo dal giorno in cui avevo lasciato il villaggio di Paleokhora, nel sud dell’isola. Non so quanti giorni fossero passati da allora.
Nelle ore trascorse a camminare in solitudine sotto il sole avevo perso completamente il senso del tempo e la vista di quella minuscola figura in lontananza mi emozionò. Affrettai il passo. Quando lo raggiunsi rimanemmo inizialmente immobili uno di fronte all’altro, senza parlare. Riconobbi i gambali di cuoio levigato e stinto, tipici dei pastori. Un cappello sfilacciato e senza forma creava una zona d’ombra sul suo viso. Due occhi scuri mi scrutavano furtivi. Salutai usando le poche espressioni in greco che conoscevo e lui mi sorrise esibendo una dentatura malconcia. Subito mi fece cenno con la mano indicando il basto sull’asino e invitandomi a liberarmi dal peso dello zaino. Mi offrì anche dell’acqua. Accettai entrambe le cose. Poco dopo, senza aggiungere altro, riprendemmo insieme il cammino.
Come ogni giorno a quell’ora, si alzò il Maestrale. Nel giro di pochi minuti la superficie del mare si fece di un blu elettrico acceso, increspata e punteggiata qua e là da migliaia di schegge di schiuma candida mentre dall’entroterra cominciarono a giungere pungenti profumi di mirto e lentischio. Camminammo per alcune ore a pochi metri uno dall’altro e, al crepuscolo, giungemmo a uno stazzo. La presenza di alcune pecore e di un recinto e la familiarità con la quale il pastore si muoveva sul terreno mi fecero capire che eravamo giunti al luogo dove viveva. Dietro la stalla c'era infatti una costruzione bassa dipinta a calce e una porta di legno corrosa dalla salsedine, protetta da una rudimentale tettoia di paglia. Entrai per primo.
L’interno della casa colpiva per la sua frescura inaspettata, era piccola ma ospitale. L’arredamento era modesto, essenziale: un letto in ferro battuto appoggiato al muro, cesti di vimini appesi alle pareti e una piccola immagine del Cristo incorniciata in oro, appoggiata sopra un comodino. Sul materasso imbottito di paglia erano state stese alcune pelli di agnello e c’erano bottiglie di vetro vuote che l’uomo si affrettò a togliere. Subito dopo si tolse i gambali e mi offrì altra acqua che pescò con un secchio di metallo arrugginito direttamente da un pozzo situato sotto una piastrella del pavimento. Bevvi con avidità, a occhi chiusi. Quella sera feci esperienza della nota ospitalità degli isolani. Quando il pastore fece per congedarsi e uscire portando con sé una coperta, capii subito che mi stava cedendo il suo letto e mi inchinai spontaneamente per ringraziarlo. Rimasto solo mi distesi sulle pellicce, esausto. Sentii i campanacci delle pecore in lontananza, poi udii una voce o forse fu il guaito di un cane e poi più niente.
Al risveglio mi ritrovai nella stanza buia, solo. Attraverso una piccola finestra vidi il cielo stellato ma lo spaesamento era così grande che non osai muovermi. Percepii la pelliccia di agnello sotto il mio corpo e mi ricordai improvvisamente di tutto, mentre la vista piano piano si adattava all’oscurità permettendomi di orientarmi. Mi alzai e mi diressi verso la porta. Due sagome scure mi vennero incontro scodinzolando. Riconobbi i cani e il piazzale di terra battuta davanti alla casa, il recinto, le rocce che delimitavano l’inizio della scogliera. Era notte. Il mare sullo sfondo, illuminato dalla luna piena, era una lama di metallo argentato. A pochi passi da me, immobile, seduto a un tavolo, vidi lui, il pastore. Tutto sembrava predisposto per qualcosa di speciale, il piano di legno era festosamente apparecchiato, c’erano due candele accese e fichi d’india e grappoli d’uva armoniosamente disposti sopra a un piatto. Accortosi della mia presenza il pastore si animò e a gesti mi invitò a sedere offrendomi del vino bianco fortemente resinato.
La cena fu frugale, costituita da fette di pane raffermo, olio, olive nere e formaggio feta irrancidito. Mangiai con ingordigia un po' di tutto più volte e bevvi senza ritegno. Per tutto il tempo della cena non fu pronunciata parola, in compenso non ci perdemmo mai di vista. Spesso ci venne da ridere. Dopo aver gustato una fetta di cocomero zuccherino, il pastore con un cenno si congedò per qualche minuto tornando con due tazze colme di caffè alla turca dall’aroma prepotente. Fu allora che guardandomi con solennità mi disse: “Michalis, egò Michalis”. Ne fui così colpito che balzai in piedi e dissi: “Michele! Anch'io Michele!”. Scoppiammo a ridere e ci abbracciammo ripetendo i nostri nomi. In quel momento ci parve di essere solo noi sull'isola, solo noi sotto un cielo di miliardi di stelle e di fronte il mare che per secoli era stato solcato dalle navi degli antichi. Brindammo ancora e poi ancora, mentre il suono delle onde di sotto, sulla scogliera, a tratti copriva le nostre voci.
Il giorno successivo fui svegliato da una raggio di sole dorato che penetrò nella stanza. Sarebbe stata un’altra giornata di cielo terso e di calore ininterrotti fino a sera. Raccolsi le mie cose e uscii fuori. Michalis dormiva ancora. Lo vidi tutto raggomitolato nella sua coperta con accanto i resti di un piccolo fuoco. I due cani, sdraiati accanto a lui, mi seguirono con lo sguardo, scodinzolando. Mi girai e ripresi il cammino.