Ha compiuto 35 anni il “fantasy musicale” di The Broadsword and The Beast, il 14° album dei Jethro Tull: disco troppo poco celebrato (seppure vendette bene e in Germania fu addirittura un best seller) all’interno della vasta discografia del gruppo di Ian Anderson, probabilmente per il suo ruolo di apripista (A del 1980 merita infatti un discorso a sé) del nuovo decennio sonoro fuori dalle rotte del folk e del rock più verace di cui la band è sempre stata considerata, a buon diritto, uno dei simboli imperituri.
Si tratta invece di un lavoro assai significativo, sia per l’alta qualità compositiva e autoriale sia perché ha individuato con decisione il corso artistico da prendere, confermando inoltre la scelta di alcuni validissimi nuovi elementi che molto avranno ancora da condividere coi Tull per gli anni a venire. Nonostante quindi un mero discorso di abitudini e di prese di posizione da parte dei fan della prima guardia, che comunque alla fine hanno accolto il prodotto senza grandi polemiche trovandovi pure “pane per i loro denti” almeno in una manciata di pezzi, grazie a una sapiente miscela fatta di sintetizzatori, folk acustico e hard rock il verbo di Anderson e compagnia raggiunge con incedere fiero anche le generazioni più giovani, inventando una via contemporanea al proprio particolarissimo prog, senza snaturarlo.
La parte del leone in questo “cambio di costume” la fanno sicuramente le tastiere, peraltro qui non semplice veste sonora ma timbro capace di intrecciarsi a chitarre e ritmo e di creare veri e propri riff elettronici, incalzanti al punto giusto e forieri di quella “epica” necessaria, per quanto attualizzata, se si parla dei Jethro Tull. Di una prima stesura dei synth si è occupato Anderson in persona (da buon polistrumentista qual è), per poi lasciare a Peter John Vettese, tastierista dei Rich And Famous, il compito di seguirne il flusso e sviluppare idee sulla scorta di quel tipo di gusto e di costruzione armonica. Dave Pegg (basso, mandolino, cori), già Fairport Convention, e Gerry Conway (batteria e percussioni), famoso per il suo lavoro al fianco di Cat Stevens, danno vita a una sezione ritmica incalzante e possente che il chitarrismo del veterano della band Martin Barre affianca con grinta, soluzioni efficaci e nuovi effetti.
Il flauto rock per eccellenza, quello appunto di Ian Anderson, cavalca tali onde sonore con destrezza, creando una nuova contestualizzazione per lo strumento, inventando fraseggi in grado di scaldare i vecchi cuori e di accendere quelli giovani. Un gruppo insomma che dimostra grande intesa e che suona praticamente dal vivo in studio, tanto che, per ammissione di Anderson, molti pezzi sono registrati in presa diretta e non hanno avuto bisogno di correzioni o sovraincisioni. Non è comunque solo un discorso di arrangiamento e di produzione (qui curata dall’ex Yardbirds Paul Samwell-Smith), c’entra anche la scrittura: le canzoni stesse difatti si stringono in strutture più agili ma non frettolose e sfoderano melodie accattivanti, all’occorrenza corali, capaci di imprimersi nella memoria dopo pochi ascolti. Il bagaglio di riferimento resta il folk, con il suo approccio modale (il modo tipico del genere è il dorico), le progressioni e le cadenze, il tutto ben mescolato con stilemi e suoni provenienti dal rock e dall’hard rock e note blues che ogni tanto fanno capolino, mentre la suite (struttura tipica del progressive) si piega un po’ di più verso la canzone. Le dosi dei suddetti ingredienti variano di brano in brano e disegnano un paesaggio vario ma ben coeso.
È un disco a cui si va dietro dall’inizio alla fine, per i meriti musicali ovviamente, e anche per le immagini che sa evocare e che in più di qualche episodio si rifanno piuttosto apertamente al fantasy, creando un clima sospeso tra mito e soprannaturale, tra creature inquietanti, simboli misteriosi e incantesimi; spesso si ha la sensazione che si tratti di allegorie e di metafore per descrivere stati psicologici o denunciare mali costumi della società e dei politici (laddove ciò non è esplicito). L’atmosfera fantastica è ben rappresentata pure dalla cover e dalla grafica dell’album, ad opera del celebre disegnatore, nonché fan di vecchia data dei Jethro Tull, Iain McCaig: il minaccioso folletto-guerriero alato, con tanto di coda, che brandisce la spada davanti a un mare in tempesta, nelle fattezze assai somigliante a Ian Anderson, incrocia il “personaggio” del primo pezzo, Beastie (nome che nel testo allude alle paure più profonde dell’animo), con le liriche del brano che apre il secondo lato dell’LP, Broadsword (di fatto, altra soluzione interessante e molto “prog”, i due lati del disco porteranno i titoli dei rispettivi brani di apertura).
I simboli che corrono lungo la cornice sono la trascrizione in Cirth (l’alfabeto artificiale creato da Tolkien ed ispirato a quello runico delle antiche popolazioni germaniche) dei primi versi di Broadsword: “Vedo una vela nera all’orizzonte / Sotto una nube nera che copre il sole / Portami la mia fida spada e una mente limpida / Portami la mia croce d’oro come talismano”. Nel retro della copertina un suggestivo “drakkar”, l’imbarcazione vichinga con una testa di drago decorata sulla prua, che solca i flutti. McCaig ha inoltre dichiarato, data la concomitanza dell’uscita del disco con le festività pasquali, di avere intenzionalmente occultato delle uova di Pasqua all’interno della grafica.
Ogni pezzo dell’album presenta delle forti caratteristiche da singolo e la scaletta fin dal principio garantisce un ascolto trascinante: Beastie è il rock che molte heavy band degli Ottanta prenderanno a modello, Clasp (l’abbraccio umano così difficile da ricevere e da dare) il folk che va a testa alta, con una linea di flauto strepitosa e percussioni ammalianti, Falling on Hard Times (che singolo lo fu per davvero) il retaggio blues sfoggiato con eleganza che lancia fendenti alla politica e alla piega presa dai tempi, Flyng Colours l’indole danzante che si muove con intelligenza sulla moda sonora del momento, Slow Marching Band un inno con un bellissimo piano in evidenza e voce e coro da brividi, Broadsword (il secondo singolo) l’epica Tull e il manuale per il ruolo del sintetizzatore nell’hard rock, Pussy Willow la ballad grintosa à la Jethro Tull, Watching Me Watching You un prog elettronico dalla cantabilità pop, Seal Driver il calore classico che serve in prossimità della chiusa, mentre Cheerio (che sarà a lungo il brano di chiusura dei concerti del gruppo) è una gemma di poco più di un minuto che fonde alla perfezione la tradizione folk scozzese con armonizzazioni vocali realizzate col vocoder, creando un’atmosfera che sa di antico e di futuro insieme: praticamente un fantasy fiabesco.
Qui si conclude la tracklist ufficiale, ma i pezzi usciti dalle session sono parecchi di più e verranno inclusi in raccolte e riedizioni successive. Il bello è che il disco sarebbe potuto tranquillamente essere un doppio constatata la qualità delle outtake: Jack Frost And The Hooded Crow, Jack A Lynn, Mayhem Maybe, Too Many Too, Overhang, Rhythm In Gold, I’m Your Gun e Down At The End Of Your Road sono infatti tutti brani da avere. Ian Anderson scriverà nelle note di copertina della versione rimasterizzata che l’album contiene alcune delle migliori canzoni dei Jethro Tull. Il tour che seguirà, con il palco allestito come una grande nave pirata ed altri espedienti scenici di grande impatto, sarà l’ultimo ad essere impostato in modo così teatrale. Un lavoro che apre un’epoca e contemporaneamente ne chiude un’altra.