“Il ruolo dell’artista oggi è cruciale, perché c’è una situazione di incertezza e di paura verso il mondo futuro e l’artista per me dà una nuova fiducia alla vita perché rappresenta una prospettiva altra, un po’ più ricca di immaginazione del mondo in cui viviamo; quindi c’è una generosità da parte dell’artista che ci porta ad affrontare la vita con una nuova energia”.
Con queste parole Christine Macel presenta, in veste di curatrice, la 57esima Biennale d’Arte di Venezia, Viva Arte Viva. Certamente ci si prepara con grande energia a questo appuntamento che tutti aspettano da tempo e che sono pronti a celebrare proprio come, nel lontano 1893, si decise con una delibera dell’amministrazione comunale, di celebrare le nozze d’argento del re Umberto e Margherita di Savoia, attraverso una esposizione biennale artistica nazionale.
Quest’anno, soprattutto per tutti i visitatori che si sono approcciati al mondo dell’arte e continuano a farlo attraverso la visita in Biennale, si può dire che il dispendio di energia sia doppio se si vuole cercare di comprenderne appieno il significato. Ispirata all’umanesimo, volto ad esaltare la capacità dell’uomo, attraverso l’arte, di non essere dominato dalle forze che governano quanto accade nel mondo, questa mostra si rivela altamente concettuale per poter essere capita in un giorno o due di visita. Naturalmente per comprendere al meglio l’Arte, soprattutto quella contemporanea, è necessaria un’attenta analisi e studio preventivi sui significati nascosti delle opere, ma se si è costretti a leggere continuamente le varie didascalie e libretti informativi per essere emozionati da un’opera, allora la visita può diventare davvero faticosa e lasciare molto perplessi.
Se la Biennale si deve qualificare come uno di quei luoghi principali, dove gli artisti e il pubblico possono dialogare, diciamo che quest’anno il pubblico potrebbe mostrare una certa difficoltà su come dover approcciarsi. Partendo dal tema principale, Viva Arte Viva, non si ha subito la percezione di essere in una mostra che dovrebbe esaltare e celebrare l’arte, ma ci si perde un po’, camminando spaesati tra i vari padiglioni, nel cercare di comprendere il filo conduttore. La curatrice ha interpretato l’atto artistico come atto di generosità, ma anche di resistenza e di liberazione, sviluppando tutto il percorso espositivo intorno a nove capitoli, con due primi universi nel Padiglione Centrale ai Giardini e sette altri universi che si snodano dall’Arsenale fino al Giardino delle Vergini.
Dal Padiglione degli artisti e dei libri al Padiglione del tempo e dell’infinito, la Biennale sviluppa un racconto non molto consequenziale, ma con deviazioni che riflettono la complessità del mondo, la molteplicità delle posizioni e la varietà delle pratiche. Interrogandosi sui valori stessi della società, gli artisti cercano di indagare il modo di fare arte, tra ozio e azione, disegnando un mondo dai contorni incerti, in un momento di grande disordine globale.
Per questo la mostra si apre con l’opera Artist at Work di Mladen Stilinovic, che predicava la pigrizia come condizione necessaria dell’essere artista, ritraendosi nel 1978 mentre dormiva nel proprio letto, poi nel 2011 sulla panca di una delle sue mostre. Certo anche visitatori si interrogano, a loro modo, sulla funzione dell’arte oggi, non riuscendo a intenderne la direzione. Il Padiglione delle Gioie e delle Paure evoca il rapporto del soggetto con la propria esistenza, e, obbligando a considerare l’umano nel suo corpo e nelle sue emozioni, rievoca un umanesimo nuovo che poggia su una ragione complessa, articolata come il groviglio delle emozioni.
Così se l’opera di Hajra Waheed coniuga questi sentimenti di alienazione dovuti alle migrazioni o alla sorveglianza di massa, Tibor Hajas, Marwan, Plný e Sebastian Diaz Morales delineano con maggior veemenza sentimenti di annullamento e distorsione. Di fronte al video di un uomo in sospensione in un vasto cosmo di Morales, il visitatore è invitato a compiere una seduta meditativa, a riflettere sulla vasta immensità dove siamo immersi, senza nessun tipo di controllo. Questo senso di sospensione e fluttuazione dell’individuo vi accompagnerà per tutto il percorso dei Padiglioni ai Giardini, dove incerti e curiosi vi domanderete cosa visiterete all’interno dei Padiglioni delle singole nazioni e soprattutto se lì vi sarà svelato il senso, tanto semplice apparentemente, ma misterioso, a primo impatto, di questa Biennale.
Degno di nota soprattutto il Padiglione del Giappone di Takahiro Iwasaki, Turned Upside down, it is a forest, rappresentato dalla costruzione di un fantasioso mondo lillipuziano, ottenuto con fili, strofinacci, cannucce e altri piccoli rifiuti plastici. Per entrare sicuramente farete un po’ di fila ma non potrete non provare l’emozione di guardare questo magico paesaggio da un buco nel pavimento! Sicuramente una forte connotazione politica domina la poetica artista del Padiglione Russo, dove tre grandi artisti, Grisha Bruskin, Recycle Group e Sasha Pirogova, mettono in scena Theatrum orbis. I peccati del mondo contemporaneo vengono rappresentati in tre atti: Bruskin riempie la scena con centinaia di figure umane, droni, idoli arcaici e soldati in lotta contro il potere assoluto da tutti agognato; Recycle Group ha realizzato una serie di sculture che riproducono la punizione dei dannati nel nono cerchio dantesco e per concludere, il video di Sasha Pirogova è un racconto di immortalità come infinita ripetizione del binomio vita/morte.
Se siete però arrivati in Biennale con l’idea di veder rappresentata la bellezza e la vita dell’arte, come effettivamente ci saremmo aspettati tutti, vi suggerisco una visita dall’artista Phyllida Barlow al Padiglione Inglese per vedere la sua gigantesca installazione site-specif, Folly. Partendo dalla definizione stessa della parola, l’artista ha creato una sorta di labirinto scultoreo, servendosi di materiali riciclati per costruire delle enormi sculture sospese: alcune si ergono fin sopra il soffitto, costringendo così il visitatore a costruirsi una propria via d’uscita! Per rilassare un po’ la vostra mente prima di approdare all’Arsenale, dopo tutto questo percorso filosofico tra i vari padiglioni, vi consiglio una sosta al Padiglione francese, dove Xavier Veilhan con Studio Venezia trasforma l’interno in una sala da musica e studio di registrazione, con performance musicali che ci vedono spettatori.
Giunti all’Arsenale, sarete guidati all’interno di uno spazio comune, come suggerisce appunto il Padiglione dello Spazio Comune che inaugura il percorso, dove gli artisti si interrogano sul modo di costruire una comunità che superi l’individualismo e gli interessi specifici. Qui potrete iniziare a sentirvi parte di un progetto comune e abbandonando un po’ quel forte senso di spaesamento iniziale, sarete invitati a interagire effettivamente con alcune delle opere in mostra, come accade con David Medalla e la sua opera A Stitch in a Time, dove i visitatori sono invitati a ricucirla, simboleggiando la coesione di un mondo comune. Degna di nota, soprattutto per il dialogo, comprensibile finalmente a tutti, che si viene a creare tra spettatore e artista, è l’installazione del brasiliano Ernesto Neto, Um sagrado lugar (Sacred Place): un’enorme tenda a ragnatela, legata alle colonne e alle travature del soffitto della navata principale dell’Arsenale, dove il visitatore è invitato a entrare, senza scarpe, per vivere questa esperienza sciamanica. Ci troviamo infatti nel Padiglione degli Sciamani. L’artista, un po’ come uno sciamano, animato da una visione interiore, funge da collegamento tra il mondo terreno e quello ultraterreno, che, se vogliamo immaginarlo, rappresenterebbe un po’ la nostra coscienza; attraverso quindi il mutamento di “coscienza artistica”, l’artista ci guida in uno stadio di riflessione e consapevolezza. Varcare l’ingresso di questa tenda significa instaurare un contatto con la culturale rituale sciamanica degli amerindi, appartenenti all’etnia Huni Kuin, presenti nella foresta amazzonica al confine con il Perù: per guarire la nostra anima dobbiamo relazionarci con la natura. Vi consiglio di provare questa esperienza!
Di forte impatto emotivo l’opera presente nel Padiglione dei Colori, dell’americana Sheila Hicks, Scalata al di là dei terreni cromatici, un vero e proprio tripudio di colori. Analizzando il potere e la seduzione dei colori e la combinazione di essi, Hicks realizza una parete ricoperta da giganteschi gomitoli di lana colorata e tra sensibilità e trasparenza delle varie tessiture, è pronta ad emozionare e stupire il pubblico. Dato che i colori non esistono in sé, ma sono il risultato di un processo dell’occhio e del cervello che decodifica la realtà, questo Padiglione invita a riconsiderare gli approcci fenomenologici dell’arte.
Sugli altri quattro padiglioni preferiamo lasciare un alone di mistero che potrete svelare da soli secondo le vostre riflessioni e prospettive di visione; vi ricordiamo soltanto che non c’è ormai più tanto tempo per gli indecisi: Venezia vi accoglierà tra le acque della Biennale solo fino al 26 novembre!