L'atelier come un teatro. E gli oggetti che lo affollano come attori. Comparse e primedonne che calcano un palcoscenico luminoso, davanti a un regista circospetto, riflessivo, attento e severo, quasi puntiglioso nella sua scrupolosità.
Si firma Henri Matisse e fa il pittore da quando, all'età di 20 anni, disegnò un mulino durante una convalescenza. Quel mulino segnò la sua strada e lui, apatico giovane di Le Cateau-Cambrésis, destinato ad attività legali, divenne un genio della creatività, maestro del colore, sommo padre di un modello di bellezza moderno mentre Cubismo, Surrealismo e Dadaismo introducevano nell'arte "l'estetica del brutto". Ma per Matisse non era più la natura il 'cuore' della 'piece' che andava a dipingere. Il mondo, tutto il suo mondo, era entrato negli atelier del Midi e di Parigi e da lì lui dirigeva oggetti e modelle secondo prospettive e colori diversi, in una visione poetica che è l'essenza del suo moderno classicismo. "L'oggetto è un attore", diceva. "Un buon attore può recitare in dieci differenti commedie; in questo modo un oggetto può avere un ruolo in dieci quadri diversi".
Così un vaso di vetro o un bricco per la cioccolata avuto come regalo di nozze appaiono nelle sue opere più volte, in varie collocazioni e con importanza diversa e diversa prospettiva. È questo metodo esplorativo del mancato avvocato di Le Cateau-Cambrésis il fulcro della mostra in atto alla Royal Academy of Arts di Londra, in piena Piccadilly. Matisse in the studio ricostruisce il background di quadri famosi, permettendoci di entrare in punta di piedi nella vita di un uomo, oltre che di un artista, e offrendo quel sapore di 'proibito' che si avverte quando riusciamo a guardare dal buco della serratura.
"Lui viveva nel modo in cui dipingeva", racconta Francois Gilot, compagna di Picasso, che per un periodo ha frequentato la sua casa-atelier di Vence. "Quando entravi nelle sue stanze eri nel suo universo". Gli oggetti, scelti nel corso dei numerosi viaggi oppure acquistati nei negozi parigini, erano dappertutto: mobili e stoffe, sculture, vasi, bicchieri e suppellettili di ogni tipo. Ciò che vediamo nelle opere, anche i motivi floreali o geometrici delle tappezzerie, nascono da tappeti orientali, scritte cinesi, decorazioni arabeggianti provenienti dal Nord Africa, che Matisse collezionava e aveva tutti i giorni davanti agli occhi, erano parte della sua esistenza.
Attraverso una minuziosa ricerca i curatori dell'esposizione hanno rintracciato una grande quantità di questi oggetti nei musei di tutto il mondo e nelle case private, riunendoli al secondo piano della Royal Academy e confrontandoli con dipinti famosi in cui questi appaiono. È il caso della sedia barocca acquistata in un negozio di antichità veneziano, come pure del braciere ottomano dipinto insieme a molte delle sue odalische, e della settecentesca brocca di peltro, spesso riprodotta colma di fiori, che troviamo in Vestito viola e anemoni e in Giallo Odalisca. "Per me il soggetto di una pittura e il suo sfondo hanno lo stesso valore", sosteneva. "Non c'è un primo piano, solo lo schema è importante".
In questa sua continua esplorazione di forme e colori e nella grazia 'poetica' che deriva dalle loro interferenze c'è il processo creativo di Matisse. Che è stato parte della sua stessa vita. Così Francois Gilot intervistata da Robert Murphy ci guida ancora nella sua stanza: "Matisse era a letto e aveva un maglione verde. Si abbinava bene con certe cose sulla parete dietro di lui, come un oggetto cinese in legno color porpora. Una delle sue caratteristiche è che dovunque c'è un verde, lui abbina sempre un porpora".
Matisse in the Studio ci offre l'opportunità di conoscere proprio questa intima relazione con gli inanimati compagni del pittore, proponendo un'occasione unica di ammirare 65 pitture, sculture e disegni di Matisse insieme a 35 oggetti che sono stati fonti di ispirazione. Tra questi anche sculture e maschere africane lo hanno coinvolto in un percorso artistico che ha portato al suo nuovo approccio verso il nudo e i ritratti, in una semplificazione stilistica che però niente toglie alla sensualità e al coinvolgimento delle emozioni.
Ma non fu soltanto l'arte africana a stimolare il suo fervore creativo. Giovani modelle non sono mai mancate nello studio di Matisse, così come nella vita; il suo pennello le ritrasse decine e decine di volte, nude o vestite con gli abiti che lui chiedeva loro di indossare, portati dai suoi viaggi in Marocco e in Algeria. Tutta la loro essenza veniva spremuta fino a quando non aveva bisogno di un'altra fonte di ispirazione e quindi di un'altra modella. Tra queste una giovane italiana, Lauretta, che si presentò nello studio di Matisse a Parigi negli anni della Prima guerra mondiale cercando un lavoro. La dipinse 50 volte in meno di un anno. L'opera esposta alla Royal Academy, La Donna Italiana, dimostra l'impatto sull'artista delle maschere africane.
Molte altre modelle hanno seguito il suo destino. Come la bellissima Lydia Delectorskya, segretaria-assistente-modella negli anni Trenta. Eppure Matisse, che con i suoi dipinti riesce a coinvolgere i nostri sensi, ha sempre mostrato all'esterno un distacco quasi ascetico (anche se poi così non era). Lui, con quell'aria riflessiva più da filosofo che da artista, non mancava nemmeno di uno spicciolo senso pratico. Di nuovo è Francoit Gilot a raccontarci nel suo libro (La mia vita con Picasso) ciò che aveva saputo dalle parole del compagno. Si trattava di Lydia e della reazione di Madame Matisse, la quale - si legge - "si seccò di avere tutto il giorno tra i piedi quella ragazza e mise il marito di fronte all'alternativa: 'Scegli tra me e lei'". Matisse ci pensò sopra attentamente e, dopo aver riflettuto per ben due giorni, disse alla moglie: "Ho deciso di tenerla. Mi aiuta molto a preparare le dichiarazioni per le tasse".