La natura delle considerazioni che proporrò in merito al poeta James Douglas Morrison e all’eclettico polistrumentista David Bowie è differente, ma in definitiva si ricongiungeranno.
Un professore di lettere del liceo tentò un giorno di convincermi che il bisogno di fruire d’arte, varia con l’incedere dell’età. Ero un adolescente già sulle orme di Mark Twain, per parafrasarlo: “Non ho mai lasciato che la scuola interferisse con la mia formazione”. Il professore sosteneva che la musica stimola l’emotività, è arte della passione, e con l’incedere del tempo l’uomo diviene più razionale. Tutt’oggi, nel selezionare fra gli archivi ciò che ho voglia d’ascoltare cucinando, scrivendo o buttandomi sotto la doccia, so che sarà elemento significativo e apporto al mio precario benessere psicofisico.
Parlerò di J.D. Morrison in veste di appassionato estimatore dell’artista e fine conoscitore della sua trama umana, per quanto può esserlo uno studioso a caccia di verità su una figura mitologica contemporanea. Ma sono onesto nell’asserire d’aver studiato non solo alcune biografie del poeta americano, bensì la sterminata produzione poetica, ch’è il suo contributo ai campi Elisi della bellezza. La stessa solerzia non mi ha spinto a dedicare pari attenzione a David Bowie, non perché non la meriti e nemmeno perché lo consideri un artista di minore forza e genio. Di Bowie potrò parlare a partire dalle suggestive emozioni che mi regala la sua inestimabile opera ogniqualvolta ne fruisca, dalla poetica che evinco nei temi dei testi, dalla prorompente forza rivoluzionaria della sua immagine scenica, del suo giocare con la sessualità.
Jim Morrison diviene personaggio pubblico e rockstar internazionale sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso. A ridosso della contestazione, se non ci credete aprite una scheda wikipedia, ma potrebbe trattarsi addirittura della Summer of Love, il 1969. Non vorrei che il mio citare uno degli anni gloriosi dell’epopea Hippy fuorviasse il lettore e lo tentasse a inquadrarmi quale nostalgico sostenitore dei figli dei fiori, del sesso, droga e rock’n’roll. Siamo poeti, mica belve randagie.
Un caro amico di Morrison (potrebbe essere Lisciandro) - rispose alla domanda di un giornalista in merito alle modalità secondo cui James Douglas si preparava alla conquista del mondo nei giorni precedenti la pubblicazione del primo album dei The Doors: “Assumeva uno sproposito di acido lisergico tutte le mattine”. Uno dei motivi che mi hanno avvicinato alla figura del poeta statunitense fu proprio una certa coincidenza nelle letture formative e negli artisti di riferimento. James agiva in questo modo in pedissequa osservanza dei precetti Rimbaudiani della Lettera del Veggente (sistematico sconvolgimento di tutti i sensi).
Stavano per chiudersi gli anni Sessanta, quelli della contestazione al Vietnam, la minigonna, il libero amore. Erano anni in cui le rockstar assurgevano al trono di portavoce del malessere generazionale (mi sono prefisso di non usare la lingua coloniale se non necessario ma qui potete leggere “opinion leader” se non urta la vostra sensibilità). Rischiavano a vario titolo di essere perseguitate e rovinate dal potere politico anche senza sfiorare le tematiche tanto care alla tradizione complottista. Per esempio la componente pratica della decisione di Morrison di fuggire a Parigi riguarda la necessità di sottrarsi all’attacco al suo patrimonio da parte dell’amministrazione Reagan, che lo processava per atti osceni in luogo pubblico mai avvenuti. Esiste in effetti la foto del gesto incriminato all’interno del disco Soft Parade e del leggendario membro di Morrison neanche l’ombra.
Ma per introdurre l’argomento odierno è necessario tornare sui nostri passi e posare l’attenzione sulle dosi massicce di LSD assunto ogni mattina… Erano gli anni Sessanta. Cosa accadrebbe ai nostri giorni se un artista intraprendesse quel tipo di tossica ricerca? In men che non si dica un solerte servizio sanitario lo conterrebbe all’immacolato letto del più vicino reparto psichiatrico, limitandomi a precisare che la trasformazione del lessico non può edulcorare la natura della struttura, che resta di fatto un manicomio. Lo stesso David Bowie non ha fatto che scrivere di viaggi spaziali, presenze extraterrestri in osservazione ai confini dell’atmosfera, con una verosimiglianza inaudita e poetica a un tempo.
Al giorno d’oggi esiste più di una voce del D.S.M., il breviario che stabilisce la normalità e indirettamente individua i soggetti coatti del mercato psicofarmacologico, che stabilisce a chiare lettere come l’ideazione che abbia a oggetto l’esistenza di creature extraterrestri sia patologica e vada trattata farmacologicamente e clinicamente. Cosa accadrebbe al giorno d’oggi all’artista con la potenza immaginifica ed espressiva di David Bowie? Si ritroverebbe a protestare cacando sul letto cui è legato se gli infermieri si rifiutassero di slegarlo per lasciarlo defecare sulla tazza, come è diritto di un essere umano nato dopo l’invenzione di quel meraviglioso oggetto.
Proviamo a individuare la differenza fra quell’epoca appena trascorsa e la nostra? Effettuiamo un tentativo di determinare le cause di questa rude trasformazione e declino? Potremmo spingerci fino a pronosticare il tempo del nuovo avvento di artisti di quella portata. Ma prima, in ordine sparso, avrò premura di specificare ancora una cosa a proposito del volto dei The Doors.
La principale attività di J.D. Morrison non fu scrivere canzoni o cantarle, né fu inventare con Manzarek e soci il rock teatrale. Fu ubriacarsi. Ma parlando d’arte invece possiamo asserire senza tema di smentita che impiegò la maggior parte del tempo dedicato al processo creativo nella stesura di poesie. I testi dei The Doors scritti da Jim Morrison sono una rielaborazione della poesia romantica, stracolme di immagine prese a prestito da Milton o da chi per lui. Ma è nei propri misconosciuti versi che James Douglas Morrison ha lasciato traccia del suo passaggio umano per questa Terra. Egli era ed era conscio d’essere e voleva essere un poeta. La differenza fra gli anni Sessanta-Settanta del ventesimo secolo e oggi? Innanzitutto il pubblico. Parliamo di giovani studenti, avidi lettori, intellettuali, con robuste opinioni proprie, la televisione era una bambina capricciosa allora e gattonava senza sapere che si sarebbe trasformata nella più efficiente addetta vendite del capitalismo, nello sbirro più severo, nello strumento principe di manipolazione della coscienza collettiva.
Il valore della qualità era pressoché oggettivo, ciò ch’era bello o semplicemente nuovo immediatamente riconoscibile anche al più sprovveduto. Il comportamento bizzarro di un artista da alcuni ben visto, da altri tollerato, da altri ancora mal celatamente disprezzato, ma mai represso se non superava i limiti della legalità. L’industria dello spettacolo necessitava di queste figure che con i loro concerti portassero in scena la catarsi, unico infallibile strumento di controllo sociale e deterrente al caos della contestazione. Ma il pubblico non era ammaestrato, si trattava a loro volta di poeti, narratori, musicisti, intellettuali, cineasti, pittori e scultori… Era il fermento assoluto e lo scambio continuo. In quel contesto solo l’eccellenza della qualità portava l’artista a emergere.
Penso alle ore spese sulla chitarra dal mancino Jimi Hendrix, alla ricerca di quel suono che ne ha determinato lo stile. Penso a Keith Richards che si esercitava per ore sotto le coperte per difendersi dal freddo nella casa londinese priva di riscaldamento che condivideva con Mick Jagger. Egli era l’artista, prima che l’uomo fosse trasferito allo zoo della produzione depressa, ogni specialista rinchiuso nella propria gabbia. Produciamo beni che non ci servono destinati al nostro stesso consumo e consumiamo privandoci del misero salario che riceviamo in cambio del lavoro che svolgiamo per produrre i beni che con quel salario acquisiamo, consumiamo, esauriamo. Chiedo scusa per la ridondanza ma un circolo vizioso, in funzione espressiva, in letteratura credo vada espresso come ho appena.
Ecco quindi le cause di questa rude trasformazione e declino: l’arte si è trasformata da sublimazione della vicenda umana e del sentire dell’uomo in prodotto di consumo. L’oggetto della fruizione e della dialettica ermeneutica per cui il primo artista crea un’opera carica d’un anelito a una realtà immaginata e migliore (più bella e perfetta, sebbene perfettibile) ispira l’altra di un artista permeato di afflato simile ma dotato di sensibilità, prospettiva e competenza differente, in un continuo scambio e intreccio che vorticosamente e freneticamente lavora alla costruzione del ponte per l’Età dell’Oro.
Poi è successo che una canzone è divenuta il pretesto per dar sfogo alle membra ebbre e rendere l’atmosfera lasciva, nel contesto in cui disorientati e smarriti giovani erano alla ricerca del reperibile sollievo d’una fugace avventura sessuale. La discoteca. Erotica è parola troppo nobile e in via d’estinzione. La pornografia della musica contemporanea e dell’arte in genere è una cotta di maglia metallica che riveste gli spiriti elevati e non lascia che poche nicchie d’aria, sopravvissute in virtù della distrazione o della tolleranza del capitale, che si guarda bene dal versare la goccia che faccia traboccare il vaso, da consumato controllore, oppressore e sovrano.
Fra le teste chine sui dispositivi elettronici, intente a scongiurare l’ansia di vedere interrotto il flusso di stimoli da talent show, da cui ormai dipende la propria calma e stabilità, vagano ancora cuori puri e intelletti liberi, anime che fantasticano d’anarchia e ribellione? Di libertà? Indubbiamente essi vivono e operano, ma i poeti del nostro tempo sono obbligati ad affezionarsi alla prospettiva di un piccolo, inglorioso, successo postumo.
Quella dei poeti è una setta. Credo sia lontano il tempo in cui un gerarca possa concepire di proibirla, perché il percorso d’estinzione è già ben avviato e stabile. Spero non sia irreversibile. Karl Jaspers scrisse metafisica durante il nazismo per poter contestare e lasciare traccia del dissenso senza essere perseguitato. Questo avviene al poeta. Lascia tracce alla posterità oppressa, affinché la memoria o l’allusione a un tempo libero possa stimolare il coraggio a lavorare affinché la schiavitù non sia perenne e imperitura. Affinché a partire dalla più piccola delle metafore l’orecchio che coglie il suono della parola possa emozionarsi e tenere vivo il fuoco dell’essere umano, come una Vestale.
Quando vedrà la luce il nuovo David Bowie? Quando leggeremo i nuovi versi di James Douglas Morrison? Bisognerebbe domandarlo a Isaac Asimov, se fosse vivo.