Quello dei Bad Company nel mondo del rock è stato un “passaggio” a dir poco memorabile, un’avventura umana e artistica durata quasi 10 anni (si fa riferimento alla formazione con Paul Rodgers alla voce), e per la verità - grazie alle sue caratteristiche di genuinità, entusiasmo, amicizia e amore incondizionato per la musica, che hanno portato regolarmente i componenti storici a riunirsi in diverse occasioni nel corso del tempo - nemmeno mai definitivamente cessata.
Oggi purtroppo manca all’appello il compianto bassista Raymond “Boz” Burrell, scomparso improvvisamente nel 2006, e per di più lo scorso anno il chitarrista e membro fondatore Mick Ralphs, uno dei marchi di fabbrica sonori e autoriali della “cattiva compagnia”, ha subìto un attacco cardiaco che lo ha costretto ad abbandonare la scena, proprio mentre il gruppo stava vivendo una seconda giovinezza e stava crescendo l’interesse verso un ritorno in studio. Se d’ora in avanti a tenere alta la bandiera dei Bad Company saranno due soli dei componenti originari o se il trio superstite un giorno si ricomporrà non è dato sapere. Fatto sta che la storia di questa band è qualcosa che vale assolutamente la pena continuare a portare in giro e che se c’è un palco non esiste luogo migliore dove raccontarla.
Ma torniamo al 1973, quando tutto nacque, o meglio rinacque. I Bad Company infatti, nonostante la giovane età dei quattro, si presentano da subito come un “supergruppo” (definizione che indica band composte da membri già divenuti famosi in altre formazioni): Paul Rodgers e Simon Kirke provenivano dai Free, Mick Ralphs dai Mott The Hoople e Boz Burrell dai King Crimson. Trascorsi blasonati, per non dire regali, nessuna intenzione però di “esibire i gradi” o di avvalersi di qualche privilegio dietro il nuovo progetto, bensì – e da parte di tutti - la sincera voglia di condividere la stessa passione, di confrontarsi, di creare insieme, di vivere i pro e i contro del palco in compagnia: insomma di essere un gruppo, a costo di cominciare da zero.
E per ognuno di loro, che aveva toccato con mano il successo e le vette della classifica, poteva non essere semplice tornare all’umiltà degli esordi e rigiocarsi la partita: deve interessare la musica più di tutto il resto. Ecco il segreto e la prima qualità che accomuna ciascun membro del quartetto. La “band” poi, come entità, rappresenta sia una “forma mentis” sia una sorta di “sentimento”: è un’esperienza che una volta provata torna periodicamente a rivendicare i propri valori, facendo dimenticare le problematiche incorse in precedenza - e che per forza di cose si creano all’interno di qualunque collettivo - e indicando esclusivamente il “sogno”.
I primi a trovarsi fra loro per sperimentare una sintonia e una direzione comune da prendere sono stati Rodgers e Ralphs: i Free si erano sciolti irrevocabilmente, mentre i Mott The Hoople avevano maturato delle scelte musicali in cui il chitarrista non si riconosceva più. La scintilla scaturita appena data la corrente al microfono e alla sei corde ad ogni modo è entusiasmante e disegna subito orizzonti infuocati, tanto che il cantante si dà un gran da fare per rintracciare Simon Kirke, volato in Brasile per stemperare lo sconforto dopo lo scioglimento dei Free: il batterista non ci pensa su un solo secondo e torna in Inghilterra per unirsi al duo. La ricerca del bassista dura qualche mese e ricade quasi “in extremis” (i Bad Company avevano già preso accordi con il manager dei Led Zeppelin Peter Grant ed erano pronti a partire) sull’ex King Crimson Boz Burrell, senza averlo più di tanto messo alla prova (infatti sembra che l’“audizione” si sia consumata quasi più al pub fra boccali di birra che in studio con lo strumento alla mano), più per un discorso di affinità e simpatia che comunque prometteva bene sotto ogni punto di vista.
Su tutto la storia di Burrell come bassista è assai singolare, dal momento che lui era entrato nei King Crimson per le doti di cantante e si era trovato infine a ricoprire pure il ruolo di bassista (il dimissionario Gordon Haskell difatti si occupava di entrambe le parti). I primi rudimenti di basso glieli aveva forniti proprio Robert Fripp (Burrell sapeva suonare un po’ la chitarra per accompagnarsi mentre cantava), per cui in quel ruolo specifico si poteva definire praticamente un “neofita”. Eppure questa non si è rivelata una debolezza, tutt’altro: Burrell aveva una sensibilità musicale unica, grande curiosità e cultura sicché in poco tempo era riuscito a costruire un proprio stile inimitabile, molto melodico, “sinuoso” per il modo in cui entrava nelle trame sonore dei pezzi; se era essenziale da un lato da un altro intravedeva gli spazi in cui poteva dire la sua, creando un’architettura ritmica particolare e mai scontata. Aveva un basso fretless - difficile da suonare perché essendo sprovvisto di tasti richiede un’estrema precisione - che si era fatto modificare come estensione del manico e che nelle sue mani diventava una specie di “controcanto”.
La voce di Paul Rodgers è sempre suonata al mondo come un dono (e a tutt’oggi non ha perso una sola nota di estensione o un armonico in colore e brillantezza): potente ma flessibile, agile nel raggiungere qualsiasi tonalità, un “maglio” che sapeva diventare velluto; nelle sue corde blues e soul - un’indole naturale che impressionava persino i grandi vocalist neri americani – mescolati a un interesse per la scena hard rock e prog britannica in un composto dirompente e unico, di enorme fascino. Rodgers ha sempre vantato inoltre un talento da polistrumentista, sfoggiando incredibile maestria anche con chitarra e piano. Un leader che ha sempre guardato alla squadra. Mick Ralphs a sua volta è un chitarrista impressionante, il virtuosismo mai fine a se stesso che si mette al servizio della scrittura dei brani con assoli, fraseggi, ritmiche ed effetti regolarmente al posto giusto, un autore impeccabile di testi e musiche nonché il creatore di riff immortali che sono medaglie lucenti puntate sul petto del rock. Anche lo stile di Simon Kirke ha una personalità fuori dal comune, una sorta di “battito tellurico” che fa però sfoggio di figurazioni molto raffinate, a tratti dalle tinte jazz; i suoi possenti colpi spingono spesso i pezzi a “osare” una direzione più heavy rock e lo fanno a ragione, contribuendo a una miscela unica che non lesina in nulla: qualità della musica (comprese le liriche) ed energia.
La cosa particolare è che come autore Kirke (che tra l’altro è pure un ottimo chitarrista e suona vari strumenti) risulta essere molto intimo e delicato, mentre dietro le pelli diventa una fiera selvaggia. Ora una nota sul nome, il quale sembra venga preso (ma ci sono versioni contrastanti che lo vorrebbero derivato dal western di Robert Benton con Jeff Bridges) da un’illustrazione di epoca vittoriana in cui campeggiava la scritta “beware of bad company”, ossia “attenzione alle cattive compagnie”. Prima ancora che vi fosse un album i quattro giovani musicisti avevano collezionato sold out su sold out in un tour inglese che venne allestito come riscaldamento e banco di prova del gruppo. Il disco di esordio (Bad Company, 1974) fu registrato a Hedley Grange, una tenuta rurale in Inghilterra dove gli Zeppelin stavano incidendo il loro Physical Graffiti, e finì dritto in hit parade sia in Gran Bretagna che in USA, diventando disco d’oro.
D’altronde brani come Can’t Get Enough, Ready For Love e il manifesto “fuorilegge” Bad Company non lasciano scampo, mettiamoci anche il capolavoro acustico Seagull e ne viene fuori il debutto perfetto. Di lì in avanti il sogno di questi quattro ragazzi ha raggiunto vette vertiginose, trovando in Peter Grant un manager d’eccellenza, innamorato dei suoi musicisti e capace di mettere ordine in qualsiasi situazione, spronandoli a dare il meglio. I successivi dischi Straight Shooter (1975), con Feel Like Makin’ Love e Shooting Star, e Run With The Pack (1976) sono un crescendo inarrestabile di successo presso il pubblico e segnano la svolta, spedendo la band nell’empireo dei grandi (avranno addirittura un aereo personale con tanto di insegna “Bad Company” per spostarsi da una tappa all’altra durante i tour). Burnin’ Sky (1977) non ha avuto il successo commerciale dei precedenti ma è un lavoro assolutamente da non trascurare dal punto di vista della ricerca musicale che lo pone in un contesto di “art rock” dal sapore psichedelico, con un respiro ampio del pentagramma e divagazioni strumentali di immenso pregio.
Sicuramente comunque i veri Bad Company sono quelli di Desolation Angels (1979), che arriva un paio d’anni dopo e riguadagna la classifica capitanato da due singoli quali Rock ’n’ Roll Fantasy e Gone, Gone, Gone: la scaletta non sbaglia un solo colpo e il gruppo riguadagna fiducia. Con la morte di John “Bonzo” Bonham dei Led Zeppelin l’anno dopo e la perdita di interesse (causata proprio dal dolore di questo evento luttuoso) da parte di Peter Grant verso il lavoro, i Bad Company non riescono a ritrovare l’armonia necessaria per stare insieme e chiudono i battenti con un ultimo disco, Rough Diamonds (1982), seppure fosse un ottimo lavoro (si ascolti il singolo Electricland) e il pubblico abbia dimostrato di aver gradito. Nessun litigio, solo una necessità, coincidente anche con situazioni private di Rodgers e tanti anni di dedizione totale alla causa. Paul Rodgers inizierà una carriera solista (e con altri progetti di gruppo) assai fruttuosa e variegata e ci saranno pure degli album targati Bad Company con altri cantanti, peraltro di un hard rock più che dignitoso, ma la “cattiva compagnia” originale tornerà a lavorare insieme soltanto nel 1999; anche se la vera reunion, in termini di consapevolezza e progettualità per il futuro, è quella che avviene nel 2008 (pur senza Boz).
Oggi i cambiamenti, lo abbiamo visto, sono tanti: ma la storia dei Bad Company continua, e lo fa sempre con profonda sincerità.