La campagna che l’uomo osservava dal finestrino di quel treno in corsa, sembrava solo un susseguirsi di ombre gigantesche. Ogni tanto si intravedeva una luce di podere, giallognola e instabile in mezzo a tutto quel nero.
L’uomo pensava a casa, alla sua famiglia che era un nucleo ristretto: una moglie, un figlio di vent'anni e settanta metri quadrati di proprietà. Appoggiò la fronte al vetro freddo del finestrino per resistere alla tentazione di appisolarsi per una mezzoretta, il tempo rimasto fino all’arrivo nella stazione di Firenze. Il treno avrebbe proseguito per Milano, ma lui, per quella sera, smontava.
Aveva controllato tutti i biglietti, detto “buonasera” a ogni passeggero e risposto alle solite domande su orari, coincidenze e temperatura dei vagoni. Conosceva la tipologia dei viaggiatori di quel treno: nei feriali l’intercity sud-nord era riempito solo per brevi tratti da impiegati pendolari e qualche turista straniero. Il venerdì e la domenica invece era stracolmo per via dei rientri del fine settimana di studenti e operai.
Quella notte, mentre il vecchio convoglio rispettava l’orario d’arrivo, l’uomo pensò che quella dell'essere un ferroviere era stata una buona sorte. E anche se, a volte, sognava di vincere alla lotteria e diventare di colpo un milionario internazionale, quel lavoro lo soddisfaceva e lo rendeva sereno. Perché per lui la serenità aveva una formula precisa: una moltiplicazione di abitudini, orari, gesti, strade, e una sottrazione di ansia, progetti e illusioni senza capo né coda.
“Non sono un uomo da sogni di gloria, io” aveva detto alla fidanzata quando le chiese di sposarlo.
Lei aveva risposto:”Mi va bene”.
Mentre rifletteva sui casi della vita, il treno rallentò. L’uomo alzò subito la testa. Conosceva benissimo quel punto della strada ferrata che costringeva il bestione di ferro a rallentare. Si levò in piedi sicuro. Fuori del finestrino vide alte pareti di protezione in plexiglass decorate con un volo di uccelli neri e, dietro, sfocate, le luci della città. Si mosse senza esitazioni calzandosi il cappello d’ordinanza in testa. Nonostante il treno si fosse adattato a un leggero pendio e tutto fosse diventato obliquo, l’uomo camminò dritto e spedito verso l’uscita più vicina per controllare che nessuno tentasse di aprire le porte prima del previsto e aiutare in caso di bisogno.
Nel mettere una mano in tasca, sfiorò la schedina dell'Enalotto malamente accartocciata, la carta fina e troppo impressa di colore, e pensò che lui non avrebbe mai potuto oziare tutto il giorno come fanno i milionari. Tutt’al più avrebbe finito per comprarsi una casa in campagna, magari quella dove avevano lavorato i suoi nonni contadini, e ridato vita al grande orto, e lì avrebbe passato le sue giornate, lavorando sodo dalla mattina alla sera.
I viaggi internazionali? Sì certo, ma senza i suoi soliti amici? Parlando cosa? Inglese? E poi lui aveva mal di stomaco in auto, figurarsi in aereo. In treno invece, sul suo treno, ci stava benissimo. Del suo treno conosceva tutto, forza, ire, acciacchi e respiro.
La voce gracchiante annunciò l’arrivo in stazione. L’uomo abbassò il finestrino e il vento gli aggredì la faccia come fa con i motociclisti che vanno a tutta birra. Tirò fuori la mano dalla tasca e vide che la schedina gli aveva macchiato le dita di nero. Scese dal treno e si incamminò.
Sotto la pioggia.
Sotto la pioggia.
La BMW sfrecciava a novanta all’ora lungo i viali della città e nell’aggredire il lastricato innalzava muri d’acqua opaca. L’uomo che guidava era sulla quarantina ed era in ritardo, si diceva. Non era vero, in realtà avrebbe potuto prendersela comoda, ma era su di giri e aveva voglia di provare quel motore d’acciaio che era diventato un tutt’uno con le sue gambe, col suo sesso, con le braccia salde sul volante.
La città deserta era tutta sua, come nella canzone. Proveniva dalla casa di una donna molto bella conosciuta qualche settimana prima a casa d’amici. Lei usciva da una storia finita male, ma aveva ancora dell’entusiasmo da parte. Lui, che non aveva impegni, sogni romantici e conosceva bene l’arte di avere sempre il meglio per sé, l’aveva corteggiata secondo uno schema collaudato e sempre vincente: granelli del suo potere sparsi qua e là, come briciole da seguire e qualche regalo costoso. C’erano ancora donne così sensibili.
E così, mentre imboccava con la ruggente automobile un ponte urbano largo e vuoto, l’uomo pensava che vivere era eccitante, una gigantesca eiaculazione che, cadendo sul mondo triste, procreava la strada davanti a lui, una strada dritta e piena di successo.
La sagoma scura comparve e scomparve dalla sua vista alla velocità di un sasso lanciato. L’udito dell’uomo perse per un attimo la musica dello stereo e si sintonizzò su un tonfo sordo che proveniva da destra. L’acciaio argenteo lanciato nella notte reagì con uno sdegnoso, lieve sbandamento, un moto d’irritazione. Un cane, il lupo delle favole, un mostro con la gobba, un uomo con una borsa in spalla.
Il piede sull’acceleratore tremò ma non si alzò, le mani strinsero ancora più forte il volante così che l’auto continuò a percorrere quel ponte vuoto con la sicurezza ottusa di un automa. Raggiungere l’altra sponda era la prima cosa da fare, si disse l’uomo, e poi fermarsi e verificare, fermarsi e pensare. Ma quel ponte sembrava allungarsi a dismisura, sembrava un elastico malefico, la lingua nera di un mostro, lo stesso mostro che aveva cominciato a parlargli in testa: "Non è stato nulla, solo un cane, prosegui, vai!”.
Una volta approdato alla fine del ponte, due alti pilastri delimitavano quel nastro sospeso nel vuoto incerto con la terra ferma, l’uomo si fermò e scese dall’auto. Si guardò intorno; per strada non c’era nessuno, nessuno a giudicare o a confortare, nessuno a dire che era stato solo un cane. Camminò a ritroso sotto una pioggia battente e si avvicinò al punto del rumore e dell'impatto e qui vide la sagoma di un uomo. Due gambe leggermente divaricate, la schiena ricurva, il viso a terra come un manichino caduto da un camion. La borsa che portava a tracolla era finita in mezzo alla strada, dalla tasca dei pantaloni era uscito un foglietto bianco che presto sarebbe stato inghiottito dalla pozzanghera.
L’uomo restò qualche secondo incatenato a quella scena quindi si sintonizzò sulla voce interna che ne aveva cose da dire; progetti, futuro, strade che si interrompono e strade che continuano, la sua continuava, doveva continuare. Tornò sui suoi passi, salì in auto, asciugò il viso dall’acqua. Mise la mano sul cambio in radica sfiorò R per la retromarcia. Il momento di scegliere nella vita avviene quando meno te lo aspetti, disse la voce che poi prese a urlare che c’era la pioggia, il buio, che non c’era nessuno, nessuno, nessuno!
Sopraffatto da queste grida, l’uomo ingranò la prima. Il bolide scattò come una fiera liberata dalla gabbia e divorò tutto, la pioggia, il buio, il ponte, quella nera sagoma, quell'altra vita, nessuno.