Agli albori del primo millennio, nella Chiesa cattolica era in atto un duro scontro di autorità e di potere per rivendicare, da una parte la supremazia di Roma, dall’altra l’autonomia delle altre due più importanti sedi religiose: Milano e Ravenna, ma anche tra queste due ultime scoppiarono contrasti per consolidare, almeno, la posizione di seconda potenza ecclesiastica, dopo Roma.
La principale frizione tra la Chiesa ambrosiana e quella ravennate si ebbe sul “diritto di precedenza”, cioè il privilegio dell’arcivescovo di Ravenna di sedere alla destra del Papa assente l’Imperatore; alla sua sinistra, presente lui, tale privilegio era stato rivendicato anche dalla Chiesa milanese, ma, nel 1047, la questione fu chiusa a favore di Ravenna.
Questa vittoria fece riaccendere l’antico progetto di completa autonomia da Roma e, attraverso una serie di donazioni e affitti di terreni sempre più vasti, la Chiesa ravennate tentò di porre le basi per una giurisdizione territoriale alternativa al dominio pontificio; la contesa s’infiammò a tal punto che l’Arcivescovado ravennate fu accusato di appoggiare l’antipapa e la città, con tutta la sua diocesi, subì l’interdetto. In questo intrecciarsi di lotte di potere, si fece strada, negli spiriti più genuinamente cristiani, il desiderio di fuggire il “mondo”, con tutte le sue misere ambizioni, per cercare la realizzazione del proprio ideale ascetico nella vita eremitica.
Proprio Ravenna diede due grandi personalità animatrici e praticanti di questo nuovo stile di religiosità: S. Romualdo e il suo discepolo S. Pier Damiani. Entrambi, pur volendo sfuggire alle cure secolari, furono stimati e ricercati da papi e imperatori, che, più di una volta, li costrinsero ad abbandonare la solitudine dell’eremo per assumere compiti organizzativi scomodi e posizioni teologiche e politiche delicate.
In particolare, Pier Damiani, nato nel 1007, si concentrò in un’opera di denuncia e di riforma del clero, tratteggiando sapidamente nelle sue opere un quadro completo della vita degli eremi con i loro ritmi, le loro regole di comportamento, la loro vita quotidiana, vizi e virtù. Anzi tutto, il monaco perfetto doveva essere stanziale; a parte gli incarichi “esterni” di stretta necessità, la meditazione e le pratiche religiose potevano esprimersi in modo compiuto solo nella continuativa permanenza nell’eremo.
A mo’ di esempio era citato l’eremita Martino, che “sono quindici anni che non è più uscito di cella, non si è mai tosato né raso la barba… da diversi anni vivono insieme a lui indisturbati due serpi… per tre giorni la settimana non prende cibo di sorta: gli altri tre una misura di pane con acqua sola, la domenica e le altre feste una specie di frittata”.
Il cibo, ecco un elemento di distinzione degli eremiti rispetto ai monaci cittadini, infatti, a questi ultimi sembrava una grande privazione l’astenersi dal vino e dal lardo, mentre per gli eremiti era normale l’uso dell’acqua e dell’olio, e infatti, nel Paradiso, Dante fa dire a Pietro Damiano:” che pur con cibi di liquor d’ulivi/ lievemente passava caldi e geli,/ contento ne’ pensier contemplativi”.
La “gola”, per chi volesse condurre una vita santa era dunque una ricorrente insidia e il santo ammoniva: “agognare cibi scelti e succulenti è quasi la stessa pazzia che ornar di pittura la carta igienica che insieme a quelli andrà a finire nel cesso”; inoltre, un regime alimentare così sobrio permetteva di prolungare la vita, e viene citato l’esempio di un monaco che visse fino a 140 anni senza mai aver preso una medicina. Allo stesso modo non bisognava abusare del sonno, e se d’estate era lecito il riposino pomeridiano, era doveroso, allora, ridurre il sonno notturno. Il vero eremita, inoltre, non poteva possedere oggetti, che sono patrimonio del convento, doveva amare vesti povere e vili e indossare sempre lo stesso saio, tranne che cambiarlo, temporaneamente, in occasione delle solennità. Per quanto riguarda l’igiene, S. Pier Damiani prescriveva la rasatura del capo una volta al mese e bagni solo per motivi di salute e, a questo proposito, denunciava la piaga dei frati che “marcano visita”, per poter dormire di più e avere un vitto più abbondante e appetitoso.
Il sesso era una delle privazioni più difficili da accettare e il santo mise il dito sulla piaga denunciando i comportamenti illeciti dei religiosi; era necessaria, dunque, una volontà ferrea, che, tuttavia, non sempre bastava, e allora bisognava rivolgersi a un soccorso divino, come fece l’eremita Leone: “Una notte, mentre dormiva, gli si accostò l’Angelo del Signore e afferrato un coltello lo rese eunuco… e provò un dolore così violento come se un chirurgo gli avesse reciso la carne. Da quel momento non soffrì più certe tentazioni, né il minimo stimolo di lussuria”.
Ma non tutti potevano valersi di questi sogni liberatori, e allora Pietro consigliava l’estremo rimedio della “disciplina”: la macerazione della carne con il cilicio e l’autoflagellazione, rimedio sicuro contro le ribellioni della carne. Nell’eremo, però, nonostante questa durissima ascesi e, forse, anche a causa di essa, non mancavano casi di gravi crisi “depressive” e il santo, con senso critico, cita il caso di un monaco impazzito che si gettò in un fiume e di un altro che strinse un patto col diavolo per creare discordia nel convento e morì, poi, disperato.
Simonia e concubinaggio, vendita delle cariche ecclesiastiche e unioni coniugali illecite erano invece le piaghe più comuni del clero secolare, verso le quali erano spesso tolleranti e conniventi le alte gerarchie, ma un altro pervertimento, per la morale cattolica, ben più pericoloso e devastante, affliggeva il clero, compresi cenobi ed eremi: l’omosessualità. Pier Damiani fu il primo ad affrontare senza reticenze questo problema in un manoscritto esplosivo, il Liber Gomorrhianus, dedicato a papa Leone IX, dove vengono svelate e denunciate alcune consuetudini sessuali incompatibili con la professione religiosa. Si comincia con la condanna della masturbazione solitaria, per procedere, in ordine di gravità, con la masturbazione reciproca, il coito interfemorale e il rapporto anale: per queste ultime relazioni sessuali si richiedeva l’immediata espulsione dal clero o dall’ordine.
Ma come venne accolto dal dedicatario del libello, Leone IX, il pressante invito a prendere immediati e severi provvedimenti contro la dilagante pratica omosessuale? A questo proposito bisogna premettere che, nell’ambito dello stesso mondo cattolico, esisteva una corrente di pensiero che non disapprovava completamente certe forme di “amicizie particolari”, viste anche in chiave di solidarietà e condivisione; oltre a ciò, papa Leone IX era molto impegnato in una politica territoriale, tanto che s’improvvisò generale, alla guida di un esercito contro i Normanni in Puglia, in una guerra che lo vide sconfitto e fatto prigioniero nel 1053; inoltre, siamo alle soglie del grande scisma d’oriente, che doveva aprire una ferita ancora aperta nel mondo cristiano.
Per questo e per motivi di opportunità, il pontefice, pur apprezzando la “santa indignazione” del riformatore ravennate, fece capire che bisognava agire con umana prudenza e condannare ed espellere solo i religiosi plurirecidivi, che avessero peccato con più uomini o che avessero praticato la congiunzione anale e, per dare più valore al suo punto di vista, ammonì che: ”Se qualcuno oserà fare critiche o porre dubbi su questo decreto di direzione apostolica, sappia che sta mettendo in pericolo la sua carica”. Dunque, una posizione equidistante, sia dai lassisti, sia dai rigoristi alla Pier Damiani.
Il problema, comunque, era stato posto, e se, poi, nel prosieguo del Medio Evo l’omosessualità venne perseguita crudelmente con la pena di morte e con il rogo anche dalle autorità civili, questo non si può certo imputare alla denuncia damianea, finalizzata a manifestare l’incompatibilità morale dell’autoerotismo e dell’omosessualità con la missione sacerdotale.