La voce si adagia mollemente sulla seta dei cuscini imperlati di colori e inizia a fluire con la sua melodia, antica di secoli, di millenni.
La luce del tramonto filtra tra le foglie degli alberi mentre l’ascolto ha inizio.
Flessuosa e ondulata la voce si muove, sfiora gli sguardi, li accarezza, offre il suo respiro alle parole cosicché possano prender vita e farsi udibili; gli occhi riescono quasi a vederle mentre raccontano e ascoltano raccontare in una danza avvolgente, magica, colma di piacevolezza.
La sera scivola pian piano nella notte; nell’intimità del buio la voce esercita la sua forza seduttiva e, quasi senza che ce ne accorgiamo, ci porta al di là della parola, oltre il suo significato.
Come ammaliati dalla sua risonante bellezza ci troviamo a navigare sugli oceani della fantasia, nei territori sconfinati dell’immaginazione.
La lingua araba ha un vocabolo che racchiude questa atmosfera mirabile nella quale il dire è ammantato di divina sensualità: Samar indica questo stato di grazia nel quale i cuori ritrovano la propria consonanza, il piacere di riconoscersi attraverso il suono della voce che è respiro senza tempo.
È potente la voce, una creatura del profondo dal quale emerge come una sacra rivelazione (quella che i Greci chiamavano ierofania) capace di rendere visibile e udibile ciò che affonda nella materia ancestrale.
La voce travalica la perfezione del linguaggio, può sfuggire alla sua ossequiente castità per andare ad agganciarsi là dove ancora ha radici la comunicazione senza parola, per manifestarsi con la sua forza primordiale urlando verità scomode.
La voce sa oltrepassare la soglia del dire per farsi puro mistero, sa avvinghiarsi al nostro cuore come “linfa di pianta” [1].
Attraverso la voce si conserva la memoria: il grido, la risata sono reperti della vocalità che precede la parola e che ancora è espressione spontanea di stati d’animo che prescindono dalla formulazione razionale per esplodere come creazione libera del cuore, istinto di vitalità.
Se proviamo a riconoscerla dietro le parole ci troveremo avvolti da un reticolo di rapporti, sentimenti, percezioni che “enunciano la verità dell’anima, che lasciano spirare il cuore messo a nudo”.
L’indicibile si ammanta di panni verbali, si addossa la carne del linguaggio che articola il grido confuso per rendersi visibile, per accettare il rapporto con l’altro, segno di una apertura all’esterno attraverso la quale la voce irrompe, anche con violenza, per consentire la socialità, la compassione.
La voce rivela ciò che ancora non ha raggiunto un equilibrio dentro di noi; con le sue inflessioni segnala le nostre disarmonie, le debolezze, le paure; le zone oscure nelle quali stagnano collere represse, delusioni e ferite nascoste sotto veli soffocanti. È un ampliamento della conoscenza e della coscienza che rende più potente il sapere intuitivo.
C’è qualcosa di segreto che si cela nella voce ed è questa la ragione per cui capita di esserne attratti, ammaliati, quasi dimentichi della persona che se ne fa tramite. Ha a che fare con la potenza dei suoni magici utilizzati per i loro effetti catartici e le loro proprietà guaritrici.
Il significato stesso del dire perde d’importanza. La sola voce è sufficiente a sedurre come quella di Circe di cui Omero elogia il tono e il calore o come quella delle Sirene.
La mitologia occidentale ammanta di incantesimo il fenomeno mirabile della voce senza corpo di spiriti e fantasmi, così come è “cosa divina” la vicenda della ninfa Eco, espropriata della propria vocalità dalla collera di Era, la consorte di Zeus, e costretta a manifestarsi unicamente ripetendo le sillabe finali delle parole dette da altri, ombra evanescente privata dell’identità.
Senza dubbio la voce costituisce una forma archetipica nell’inconscio umano; è energia primordiale e creatrice come ci dicono i nomi assegnati al suo soffio: il Greco pneuma , il Latino animus in relazione etimologica con il vento (anemos), l’Ebraico Rouah.
La voce si spinge oltre la forma corporea dalla quale viene emessa per trasformarsi in purissima vibrazione, in risonanza con i suoni originari che scorrono in lei come il sangue o il respiro.
“La voce modula gli influssi cosmici che ci attraversano e ne capta i segnali: è risonanza infinita e fa cantare ogni forma di materia come attestano le tante leggende sulle piante e sulle pietre incantate” [2]. La voce è bisogno di contatto ancor prima che linguaggio: è mano protesa verso chi ascolta.
È potenzialità di farsi “verbo” ed essere così dono di comprensione e condivisione.
La voce abita nel silenzio del corpo come il corpo abita nel grembo materno; lì percepisce stimoli ed emozioni, lì sta pronta per consentire al respiro di farsi fonema e di nascere nella parola.
“Trasmette il canto dei pianeti e quello del microcosmo uterino, l’energia di vita, il primordiale. Proviene dall’illimitato e riproduce brandelli sonori raccolti in una dimensione anteriore alla vita” [3]. La voce è parola senza parola, è esigenza che si appaga quando entra nello spazio di ascolto dell’altro.
Al di fuori della lingua, al di fuori del corpo si creano un tempo e un luogo nel quale le parole sono aiutate dalla voce a caricarsi di vibrazioni che attingono ai suoni che permeano l’universo ed hanno potere taumaturgico.
L’ascoltatore per essere tale ha bisogno di fare silenzio nella propria interiorità, nella propria soggettività per permettere alla voce che viene dall’altro di risuonare al suo interno creando empatia; per consentire alla voce, che sta fuori di lui e si muove nello spazio, di essere accolta nella sua anima che la incontra e se ne lascia avvolgere, di ricevere una risposta.
L’ascolto dell’altro è una forma preziosa di accoglienza e di cura.
È gridata nel vento la voce della lontananza, è attraversata da un brivido la voce che dà l’addio ai sogni dell’infanzia, è flebile quella che accompagna la fine di un sorriso.
Una terrazza sul mare in una notte di cielo stellato accoglie la voce sussurrata che ritrova le note di un vecchio refrain per fermare un ricordo che vivrà in fondo al cuore.
Alle voci si attribuiscono valori simbolici: nel melodramma europeo al tenore spetta il ruolo del giusto perseguitato e al soprano la femminilità idealizzata.
Ogni voce fa apparire immagini mentali ma qualcuna va a svelare segreti luoghi dell’inconscio, affonda radici in una zona del vissuto piena di implicazioni sensoriali, solcata da pieghe che custodiscono una moltitudine di informazioni che si imprimono nella memoria del corpo e che non possono essere trasmesse attraverso il solo canale dei sensi “oggettivi”.
Per questo ancora più che dallo sguardo o dall’espressione del viso possiamo essere “traditi” dalla voce.
Rispetto allo sguardo che inerisce al solo registro del visibile la voce ha una ricchezza, una concretezza che è fatta di tattilità del soffio, che è acustica del respiro, che è sapore dei fonemi emessi attraverso la bocca.
La voce è lì, appartiene ad un corpo, emerge da lui e al tempo stesso ne sta fuori, non è una sua parte, un organo: è spazio aereo variabile e capace di ogni gioco nel quale altri e altro possono interagire.
Da una voce ci sentiamo accarezzati; l’aggressione di una voce sconosciuta innesca la paura.
La voce rasserena un bambino ancora escluso dal linguaggio come la dolcezza del latte materno.
Basta una voce tenue, delicata a calmare un animale inquieto.
Le voci si fanno riconoscere e riconoscono, contengono le storie di coloro che ci hanno preceduto: alcune più di tutte le altre tardano a dissolversi nel vortice del tempo.
Sentirle è come dar vita ad un incantesimo che risveglia i nostri ricordi proprio come la musica di un vecchio film.
Forse la trama si è perduta, le immagini si sfuocano, non ritroviamo bene le sequenze, ma nella memoria sono impresse le sensazioni legate a quelle sonorità: un piccolo cinema con le poltrone di velluto rosso, il pavimento di legno solcato di passi, i volti, le persone, le immagini di una giovinezza lontana. Un incontro, un abbandono, una gioia inattesa che abbiamo provato per la prima volta.
La parola non può dire, non sa contenere un’emozione così forte e allora è la voce a farsi udire: in una sorta di balbettio, inizia a cantare: è un canto flebile e struggente che fa rivivere in un istante di eternità la meravigliosa illusione di un abbraccio; nella voce si respira il profumo del tempo perduto.
È necessario “essere giusti nella voce” dicevano gli Egizi che ben conoscevano la scienza dei suoni e degli incantesimi [4], eppure noi stiamo perdendo sempre più questo legame prezioso poiché la parola viva si va spegnendo sotto i colpi delle vocalità distorte dai mezzi meccanici.
Il nostro ascolto distratto, incapace di cogliere l’infinita molteplicità di inflessioni, timbri, emozioni e sfumature non sa più attingere alla sua natura profonda, dimentichiamo di farne tesoro e precipitiamo sempre più nell’abisso dello strepito, del frastuono, in corsa verso la sordità dell’anima, privati della risonanza del corpo.
La mia voce è il mio respiro, il suono sacro che mi attraversa; grazie a lei l’orecchio accoglie le armonie dell’universo: è l’incanto della musica, il sacro inno che, come antica preghiera, governa il viaggio dello spirito per nascere e rinascere nel soffio della parola.
A cura di Save the Words®
Note:
[1] Nina Nasilli, Tra-dis-co, Book Editore, 2010
[2] P. Zumthor, La presenza della voce, Il Mulino, 1984
[3] P. Barraqué, Alle sorgenti del canto sacro, Ed. Il punto d’incontro, 2001
[4] P. Barraqué, La voce che guarisce, Ed. Il punto d’incontro, 2000