Era il 16 giugno 1919 quando il piroscafo Città di Milano naufragò al largo di Filicudi nelle Eolie. Giovan Battista Pirelli, l’industriale della gomma e della guttaperca, l’aveva fatto costruire in un cantiere di Southwick, in Inghilterra, mentre a San Bartolomeo, in Liguria, nasceva una fabbrica, quella in riva al mare, dove rivestire di pesante armatura i cavi provenienti da Milano.
A San Bartolomeo il piroscafo s’era ancorato per anni faccia all’officina fra vele e pontili issando a bordo a forza di pulegge spire di cavo che quindi immergeva nelle grandi vasche cilindriche della stiva. Le isole italiane, il Mar Rosso, lo Stretto di Gibilterra, le Baleari, il Marocco, la Libia, l’Oceano Indiano, trentadue anni di campagne fra posa e riparazione di cavi telegrafici sottomarini. Tutte sotto la guida dell’ingegnere Emanuele Jona. Sul piroscafo il suo regno era il gabinetto elettrico, quello con il banco degli strumenti di misura e il grande tavolo scuro. Qui, prima di ogni partenza, si rinchiudeva, accostando porta e finestrella, rincorrendo il fascio di luce della lampada a fiamma sullo specchio del galvanometro. C’era anche Ettore Pinelli, con lui, e tutti gli altri. E mentre loro calcolavano, ecco picchiare all’uscio: "necessità di navigazione renderebbero urgente la partenza". Era il comandante della nave. Così, ogni volta.
Settantatrè campagne fra posa e riparazione di cavi. E guerre. Come quella italo-turca allorquando dovette recarsi ai Dardanelli a tagliar cavi sotto il fuoco delle batterie nemiche e la luce intensa dei proiettori sulla costa. Ci fu la guerra italo-turca e la Grande Guerra. E il terremoto di Messina con i cavi spazzati via dalle onde di maremoto. Il giorno in cui il piroscafo affondò, il mare invece era limpido. Un mare di primavera siciliana. Da riparare c’era il cavo di Alicudi, corroso dagli scogli. Il piroscafo aveva lasciato Milazzo di buon mattino prua a Salina da dove aveva raggiunto Filicudi, isoletta vulcanica a forma di pesce ammantata di cespugli e di ginestre. “Il cavo all’approdo è buono” gridarono dal barcherizzo “partiamo”.
Quel 16 giugno 1919 il piroscafo Città di Milano partì per Alicudi e invece che a nord fece rotta a sud est, verso Capo Graziano. Un urto improvviso. Due, tre scossoni e l’ordine in macchina di fermare: lo scoglio di Seccavecchia a tre metri d’acqua! La carta nautica sul grande tavolo del gabinetto elettrico: eccola là, l’isola, Filicudi, con le sue secche, i suoi scogli, eccolo Capo Graziano e quell’insidia a mezzo miglio da terra. “A mare! A mare!”, si sentì gridare. Chi calò in acqua il barcherizzo, chi si tuffò. La nave s’alzò, mostrando la grande elica. Le caldaie di bordo, un tuono, un gorgo, dopo, nulla più. Quel 16 giugno 1919 i pescatori di Filicudi lasciarono le loro case sulla costa per andare a salvare chi era scampato alla morte per acqua. I naufraghi si stesero sugli scogli di Capo Graziano asciugando i vestiti impregnati d’acqua di mare. Al tramonto, da Lipari, uno di loro telegrafò il disastro. Sul far della notte, giunse da Messina un piroscafo e altri due, ore dopo. Con loro, una torpediniera, cinque dragamine e gli idrovolanti da Milazzo.
Il 16 giugno 1919 naufragava a Capo Graziano la regia nave Città di Milano. A sua custodia, fra antichi relitti, anfore e cannoni di Spagna, è rimasto l’ingegnere Emanuele Jona, pioniere della telegrafia sottomarina italiana.