La bellezza è figlia dei tempi lunghi. E, nel, caso di Maurizio Paccagnella, è proprio il caso di dirlo. L'artista di origine veneziana è passato attraverso l'iperrealismo pubblicitario dei grandi brand, agli sfocati quasi fotografici e impressionisti, transitato per il minimalismo concettuale di matrice britannica, per giungere, finalmente, lui dalla grande mano figurativa, a un astratto metafisico e stratificato, concepito e realizzato con sapiente e certosina pazienza nell'arco di diversi mesi. Un astratto in cui le tele sembrano le “pareti del tempo” dove sconosciuti attori segnano il loro passaggio imprimendolo come uno stilo nella pasta densa del colore.
La lentezza, la comprensione di ciò che ha sempre albergato dentro la sua anima per diventare forma creativa, ha rappresentato da sempre la ricerca compiuta da questo straordinario artista che un giornalista di vaglia, Gian Antonio Stella, ha decifrato con grande acume come qualcuno “che non ha mai cercato scorciatoie, indifferente ai suggerimenti un po' pelosi sul "dove tira il mercato". Estraneo alle logiche di clan e di cordate. Un'etica e una consapevolezza quasi monacale quella di Paccagnella, in cui ogni opera rappresenta un a sé stante. Un unicum in cui ogni pennellata vive di accessi di memoria, una tabula rasa che nel tempo si arricchisce di spunti emotivi trasformati in cromatismi dalla suggestione esoterica e magica.
Wall Street International Magazine incontra il maestro nel suo studio nel veneziano, durante una pausa dalla sua personale che si svolge nella splendida cornice di Villa Morosini a Polesella in provincia di Rovigo. Ci circondano le sue grandi tele che parlano un linguaggio nascosto, decrittato dall'artista che confessa di dovere attendere tempi lunghi, non solo per ragioni meramente esecutive, ma soprattutto perché in continuo ascolto della tela che, sommessamente, suggerisce cambi di colore, nuovi segni, nuove pennellate, altri sguardi cromatici, altre suggestioni. I graffiti presenti sulle tele di Paccagnella rimandano a un reticolo di coscienze che si parlano, si intuiscono, si studiano e poi si affermano come solchi, come cicatrici del tempo, che rimandano a sogni trascorsi, a evocazioni impalpabili che trovano sostanza nell'opera finale.
“La memoria e il suo fluire contraddistinguono la mia ricerca da sempre – sottolinea l'artista che ha collaborato con marchi come Aprilia, Luxottica, Piaggio, Renault, Ferrero, Ford, Swatch e molti altri – anche se la svolta verso l'astratto è stata lenta e sofferta. Lavorando per le più importanti agenzie pubblicitarie la mia mano che, devo dire, è sempre stata felice, viveva la creatività come puro obbligo, insomma come lavoro. Avevo bisogno di esplorare nuovi ambiti per esprimere quello che avevo dentro. Insomma un'urgenza che non potevo più contenere. Iniziai, quindi con gli sfocati a metà degli anni '90. Erano acrilici su tela che apparivano come fotografie sfuocate, ma in realtà erano quadri. Per realizzarli utilizzavo l'aerografo, quello è stato il primo passo verso l'astrazione che è arrivata di lì a qualche anno con il ritorno all'olio. Una tecnica che necessita di tempi più dilatati, di riflessioni continue e di costante ripensamento”.
Un passaggio naturale dal figurativo all'astratto come avviene per molti artisti, ma che per Paccagnella, nasce dal desiderio di far emergere la parte nascosta che si cela nel colore e nel segno. “L'emersione, il desiderio di liberarsi delle sovrastrutture per riuscire ad avere un equilibrio con noi stessi e con gli altri. Questa è stata la molla che è scattata”. Ma come avviene il processo creativo? “Destrutturo la forma iniziale, i colori in primo piano devono dissolversi per dare spazio a ciò che non si vede, al mondo che vibra sotto di essa, come una pelle che nasconde un complesso sistema vitale. Così io scopro poco a poco quanto si cela sotto la superficie di un'opera, della vita che vi pulsa, trasformando la tela in una sorta di pelle cromatica. Ed è per questo che i miei quadri vanno visti sì, ma soprattutto vanno toccati e accarezzati”.
Il timore reverenziale verso l'opera non fa parte della filosofia di Paccagnella che invita i visitatori delle sue mostre ad avvicinarsi all'opera per assaporarne la consistenza, per vivere la sensualità del tocco, la pastosità del colore nel suo massimo fulgore espressivo. Un'immersione panica che restituisce a chi guarda un ruolo attivo nella visione dell'opera d'arte, che non è oggetto intoccabile e dogmatico, ma essenza viva ed energetica di colui che l'ha creata e che in quel momento, scambia la propria energia interiore con colui che vede. Altra cifra stilistica potente nell'opera di Paccagnella è il fattore tempo. “Il logorio del tempo mi affascina, leviga e plasma ogni oggetto, lo trasforma, vi iscrive un codice tutto da interpretare. Lascio trascorre un arco temporale mentre dipingo, per consentire al tempo di dare il suo contributo alla mia creazione, lascio che intervenga liberamente, e poi quando è il momento la mia azione sarà quella di togliere, di eliminare colore, di fare spazio, di alterare i segni, di agevolare il tempo nella sua marcia inesorabile. So che che compierà il suo lavoro dando un contributo inestimabile. Il tempo agisce su di noi in ogni istante, ogni minuto che passa noi cambiano struttura molecolare e così avviene per le opere d'arte. Io lascio che questo avvenga”.