Una fuga inizia sempre con un’accelerazione, una sbandata. Non si pensa a dosarsi, a quanto fiato si avrà, quanto reggeranno i muscoli, i nervi, il cuore. Quando si fugge da se stessi, poi, bisogna essere certi di dare subito lo strappo più energico, altrimenti la carne non si lacera, la pelle non si spacca, la mente non si divincola mollando ogni presa.
La sua diserzione era cominciata chiudendo con forza la porta di casa senza voltarsi, senza fermarsi.
Qualche giorno sussurrava l’occhio mesto, quello del buon senso; per sempre gridava l’altro.
Alla stazione di Santa Maria Novella, Greta si incanalò nel fiume variegato, frettoloso, aggressivo e sudicio che popola quei luoghi: turisti internazionali, studenti pendolari, affaristi extracomunitari, accattoni dai tratti nordici, giovani prostitute appena sveglie, signore in scarpe Gucci, spacciatori e genitori in cerca dei rispettivi giovani.
Controllò l’orario dei treni in partenza e in pochi secondi, combinando fattori irrilevanti e istintivi, decise che avrebbe preso il primo Eurostar in partenza, aveva giusto il tempo per comprare il biglietto.
Con gli stessi gesti ossessivi - controllo orologio, controllo biglietto, controllo binario - ma più lenta e più vacua degli altri, si diresse verso il binario dove il treno per Milano stava per partire e salì.
Non diede nemmeno uno sguardo a ciò che stava lasciando, non appostò al finestrino mentre il convoglio usciva dal centro, non c’era nulla intorno a lei, solo un foglio bianco su cui il suo destino matita tracciava una riga dritta verso altro vuoto e uccelli neri in un cielo di plexiglass.
Arrivata al suo posto, sistemò la valigia morbida sullo scomparto sopra i sedili, e si sedette senza togliersi la giacca di velluto e la tracolla.
Respirò, tutto quello che doveva fare al momento era solo respirare.
La carrozza entrò in una galleria e lei si addormentò.
Si svegliò di soprassalto perché qualcuno le stava toccando il braccio. Riconobbe la divisa verde e blu di un controllore. Risalendo con lo sguardo annebbiato dal tessuto di quella giacca al viso, incrociò due occhi di capra che la fissavano in un misto di pena e rimprovero. Con un sorriso appena accennato, il bigliettaio vicino alla pensione che ne aveva viste tante le chiese se stesse bene e le parole di rassicurazione, biascicate e appena udibili della donna mezza svenuta, bastarono a farlo dileguare felice: quella tipa, quel giorno non sarebbe stato un suo problema.
Rimasta sola dentro il vagone di quel drago sfinito, arenato a destinazione, si toccò i capelli: erano umidi sul collo, la coda sfatta. Abbassò gli occhi e vide la maglietta sgualcita arrampicata sul suo busto, un lembo di pelle della pancia.
Si alzò in piedi e si ricompose, quindi controllò la borsetta, il portafogli coi soldi: tutto a posto.
Recuperò la sacca col necessario per la sua assenza imprecisata e, una volta scesa, si incamminò lungo il binario, cercando di imitare il passo sincopato di quella coreografia contemporanea con centinaia di ballerini senza faccia.
Non aveva ancora deciso dove passare la notte, ma forse, in mezzo all’incubo che aveva avuto su quel treno, una segretaria onirica aveva scartabellato sulla una vecchia agenda perché si ricordò di un bed and breakfast dalle parti di Porta Genova, un luogo molto accogliente, consigliato da amici fidati.
Col timore di perdere il suggerimento appena recuperato nella sua mente, cercò il numero sul telefonino e chiamò: rispose la proprietaria, Sandra M. qualcosa, che si ricordava di lei e si diceva contenta di rivederla. Le avrebbe riservato una camera.
Sollevata per aver risolto in fretta l’incognita di un posto decente dove dormire, dormire al più presto, e subito ingolfata e di nuovo a corto di energia, si avvicinò a un gradone di pietra già in parte occupato da una numerosa famiglia andina.
Si sedette in un angolo e mescolò le sue parole di rassicurazione a sua sorella a quelle frasi veloci pronunciate in uno spagnolo dolce e montanaro.
“Sto bene, stai tranquilla. Sono a Milano”.
“A Milano?“ fece eco Irene.
La sua voce invecchiava a ogni telefonata, pensò Greta, ma non perdeva quella buffa inclinazione a urlare sottovoce che aveva sin da ragazzina.
“Sono ore che ti chiamo! Che ti è preso?”
“Volevo cambiare aria, cambiare, qualcosa...”.
Tratto dal romanzo Crepapelle, Intrecci Editore, Roma.