Adesso sono sotto al grande abete. Il cuore inizia a battere forte. Conosco la sua anatomia millimetro per millimetro. Non ho mai conosciuto e mai frequentato con tanta intimità nessun'altra creatura. Alzo gli occhi alla ricerca della mia casa. Quella di fronte è la casa dei nonni, quello in cima all'abete è il mio rifugio. Lassù c'è la mia casa e la sua custode... Le innumerevoli bambine che nella mia infanzia condividevano un corpo solo, il mio, con la loro profetica cecità stanno fissando nella mia memoria quello che mi ha preceduto e ciò che sta accadendo ora, una sorta di imprinting,un regalo dell'infanzia... Ora stanno creando un singolare andirivieni dall'albero, sull'albero, nell'albero. Lassù, tra cielo e terra, depositano ai piedi della custode della mia casa il loro lavoro di quotidiana conservazione. E lei, la mia custode, accumula e sedimenta in tutto il corpo, fin nelle periferie estreme, tutto il sapere che quotidianamente le viene donato...
Ho riportato alcune frasi del racconto Via Forcole nel quale parlo della mia infanzia, a Fano, nella casa dei nonni. Anche in questo momento vedo quel luogo come la mia fucina, come la storia delle mie verità. Ancora ascolto quelle "innumerevoli bambine che condividevano un corpo solo, il mio" e così mi rivedo aggrappata al primo ramo del grande abete, pronta a spiccare il volo. Apparentemente sola, sono ancora lì intenta a studiare gli ulteriori passi per arrivare alla mia casa. Porto lassù cuscini corde cibo libri e nell'ascesa divento una creatura dell'albero. Imparo a conoscere la perfezione geometrica dei suoi rami, il suo profumo, la sua consistenza, la vita intensa dei suoi ospiti che qui, come me, hanno la loro dimora.
L'abete possiede una struttura perfetta; il tronco ha una base larga che affonda nella terra le proprie radici per ricavarne maggior linfa vitale possibile per poi restituirla al microcosmo che lo circonda. Le braccia ampie sono tese verso un potente abbraccio e pronte a ricevere e a proteggere. Come una spirale alleggerisce il suo corpo verso l'alto fino a segnare il cielo con la cima. E io sto quassù a contemplare il mare e assorbo la sua fatale qualità. Questo abete ha piantato per me le sue radici nel giardino e io, riconoscente, contraccambio.
Come mi ha sussurrato poi Ildegarda, il mio spirito nella visione sale in alto fino alle stelle in un'aria diversa, si dilata e si allarga sulle terre... Nella visione vedo diversamente e guardo le vicende mutevoli delle nuvole e delle altre creature... Tengo gli occhi del corpo aperti, non perdo coscienza e guardo la realtà da sveglia di giorno e di notte. Quassù, avvolta e protetta dall'albero, non sento rumori, neanche quelli degli abitanti della casa dei nonni; soltanto la necessità può vincere la paura della risalita. Gli altri non troveranno la strada, non riconosceranno l'unica via che, all'interno del labirinto di rami, conduce alla mia casa.
Ma con la mente posso andare ancora più lontano nel tempo. Nella parete accanto al letto c'è un acquarello di mia zia Maria. È del 1946 quindi non avevo ancora cinque anni. Rappresenta una di quelle serate invernali in cui noi tre sorelle, sedute accanto alla stufa, ascoltavamo - rapite - i racconti del babbo. Quella sera ci parlava di quando suo nonno, guardia forestale, lo portava con sé nella pineta di Dante. Allora, nel primo decennio del secolo scorso, la pineta era ancora selvaggia e incontaminata ed era abitata da quegli animali legati ad un magico primario, come "il biscione dalla cresta". Si, ascoltavamo - rapite - perché mio babbo riusciva, con la parola, a prenderci per mano e condurci nei luoghi misteriosi della sua infanzia dove la realtà era intimamente legata al mito.
Le divinità della pineta; gli alberi, le piante e i suoi animali. Che gli Alberi fossero Dei precipitati dal cielo per renderci felici l'ho appreso per via diretta da mio padre e ora tento di restituire. Ed è per questa via che ci sono fatti miei contemporanei che sono la esatta conseguenza di eventi prima di me. Tali sono i percorsi dell'infanzia e dell'adolescenza. Nell'infanzia l'incontro leggendario con la pineta, con l'albero e la mia vita nell'albero, nell'adolescenza il bosco, il riposo con lo sguardo alle stelle e l'illusione di essere loro sorella. La stranezza della percezione infantile e l'errore veggente dell'adolescenza, l'incontro della conoscenza con la coscienza mi hanno condotta fin qui.
E quando l'estate scorsa mi è stato chiesto di creare un evento nella pineta di Dante in occasione della giornata di lutto cittadino per l'incendio che ne ha distrutta gran parte, le mie mani e la mia mente erano già attrezzate ad uno sguardo che vede nella cenere e nei corpi dei pini bruciati antiche parentele di sangue. C'è così tanto di loro in me che nel processo creativo mi ha guidata una possente passione. Passione che ha la sua origine nel termine passus, participio passato di pati, patire.
Patire la sofferenza di un mondo di esseri viventi ai quali, con tanta violenza e determinazione, viene recisa la condizione della crescita, nell'atto irripetibile del germogliare. Un atto ininterrotto; ecco il pino nel ciclo delle stagioni, ecco la vita dei suoi ospiti. Un microcosmo che si moltiplicava nell'atto-stato della pineta. Non posso dimenticare una cosa che fa parte della mia vita e non è più nel passato ma è nel presente. Io derivo da queste piante; rivivo tutta la libera traboccante distesa di primavere, di calde estati con un mare di canti. Mi rivedo, con la bicicletta a fianco, riposare con la schiena appoggiata al tronco di un grande albero per ritrovare la fonte della mia vita. A volte accade, così, all'improvviso, un urto che tutto scombina e lascia me, più che viva, superstite. In questa condizione - di superstite - con un carico enorme di memoria è nato allora l'evento "Gli Alberi erano Dei".
Sono ritornata nel luogo della mia genia e ho trovato le immagini di un nuovo girone infernale; cenere e martirio. È proprio così, il fuoco si è portato via anime e corpi. Tutta la carne della materia, in cielo, al mio sguardo rimangono monconi scheletriti. Qui i grigi lunari della cenere e l'opaco e scuro colore della pineta defunta; lì vicinissimo il mare azzurro intenso. Eppure, anche ora, di fronte alla morte che l'ha oscurata, non mi ritraggo e racconterò, ancora una volta, il grande inganno.
Sola, con i piedi ben ancorati nella cenere, ecco quello che vedo. Questo luogo è il mio centro d'azione; alla mia destra il coro, vicino a loro la voce solista, a sinistra i musicisti. Qui al limite della pineta, dove ora i pini sono carboni neri, siedono le ragazze vestite di rosso - passione con accanto secchi di metallo e lunghe canne con in cima sagome di pettirossi. Attorno a me, nell'abisso della morte, a condividere il dolore di un lutto, ci sono tutti; amiche, amici, artisti e artiste erranti. Ora possiamo iniziare.
La mia, più che un evento, è un'opera breve e il mio desiderio è quello di dirigerla ma sono timida, non ci riuscirò mai. Eppure la sento e la vivo come una partitura musicale. Allora, l'opera breve inizia con una farfalla che vola, una canzone dialettale, tradizione popolare che evoca il tempo della memoria. Alla fine del canto cinque battiti di silenzio. Ad un mio cenno le ragazze seguendo un canone preciso creano, agitando i secchi che contengono sassi, un suono disarmonico. Annunciano così, l'attuale distruzione della natura, perpetrata da sguardi accecati. Da questo momento l'evento acquista un andamento corale. I musicisti e il coro, infatti accompagnano e segnano il tempo dell'azione delle ragazze. Le vedo venire verso il luogo del sacrificio con le loro lance e infilarle in questa fossa che fino a pochi giorni fa conteneva le radici di un essere vivente. Una colomba dall'anima gigante, ecco che cos'è l'essenziale qualità dell'albero, in questa circostanza, un pino. Il percorso delle ragazze è un continuo andare e venire, un continuo ritorno nel luogo dove vivevano antichi guerrieri, vinti; senza più nidi e senza più stagioni d'Alcione.
L'evento è un crescendo di suoni, voci, azioni. Le ragazze formano un cerchio dove la cenere è più spessa. Si inginocchiano e danno libero sfogo alla disperazione di un lutto che vorrei interrogasse le nostre coscienze. Mi rivedo a Bologna, in Santa Maria della Vita, di fronte alle sette statue in terracotta policroma del Compianto di Niccolò dell'Arca e mi ritrovo nella disperazione di quelle figure femminili. Lì il pianto per il Cristo morto, qui il pianto per la morte che tutto oscura. Qui non c'è resurrezione. Ora le ragazze, con il corpo e il viso di pura cenere, si dirigono verso il pubblico e con le mani, ne segnano il volto. Riprendono poi le aste e ritornano a fianco di quelle figure informi che ieri erano Dei. E si fanno, per passione, vigili testimoni.
Ecco quello che ho visto, ecco quello che realizzerò.
Fotografie di Roberta Baldrati, Valeria Nonni, Elena Pagani.
Il sottotitolo è di Ildegarda di Bingen.