La scia di sangue, di violenza, di indifferente brutalità, a cui quotidianamente assistiamo impotenti, quando non ne siamo, direttamente o indirettamente toccati, sembra che ci spinga a farci una domanda inquietante e impietosa: “di chi la colpa, quale colpa e quale senso di colpa?”.
La nostra cultura occidentale, di derivazione greco-ebraico-cristiana è pervasa ancestralmente dalla problematica della colpa. Pensiamo a Edipo o al “peccato originale”, emblemi di una colpa inconsapevole, e non per questo meno lancinante e punitiva. E la mano del terrorista, che colpisce nel mucchio, uomini, donne, bambini, da sopprimere indipendentemente dalla loro individualità, non è forse guidata e armata dalla convinzione che, sì, tutti questi “infedeli” sono macchiati e marchiati indelebilmente dalla colpa di appartenere a un mondo e a una religione o irreligione detestabili? O forse il comportamento criminale è esso stesso un’esternalizzazione di una colpa inconscia: “Si può dimostrare che esiste già prima del delitto un forte senso di colpa, il quale quindi non è la conseguenza, bensì il motivo del delitto, come se il soggetto sentisse una specie di conforto nel poter attribuire questo senso inconscio di colpa a qualcosa di reale e attuale” (S. Freud).
Se torniamo alla nostra cultura e ai due esempi sopra citati, possiamo notare anche che la colpa è legata al voler conoscere, in Edipo le sue origini, in Adamo ed Eva il cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza e in più, in entrambi i casi, il misfatto è legato alla sessualità, in Edipo e Giocasta al rapporto incestuoso, nella narrazione biblica alla vergogna delle proprie pudenda. Ancora, sia Edipo, sia Adamo ed Eva sono accomunati da un “vulnus” o una disobbedienza verso il padre. Ed è proprio sulla trasgressione di questa triade: Padre-Dio/ divieto sessuale/incoscienza felice, che si basa prevalentemente il senso di colpa della nostra civiltà, sia che i nostri dettami morali siano una diretta o indiretta emanazione di quelli religiosi, sia quando i precetti religiosi si “laicizzano” per incidere più capillarmente sulla società. Ma nel XXI secolo, si può ancora e in che modo, in generale, parlare di senso religioso?
Nel 1950, la statunitense Partisan Review propose un questionario su “Gli intellettuali e la religione”, per tastare il terreno del rapporto tra cultura e fede dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale. Il periodico MicroMega, a più di sessant’anni di distanza, ha voluto rilanciare questo interrogativo, girandolo a intellettuali, filosofi, teologi, antropologi, psicologi, studiosi contemporanei, per sondare se, come e quale tipo di religiosità abbia ancora presa oggi. Carlo Rovelli, docente di Fisica teorica, denuncia come la religione, tuttora, in alcuni casi, possa condizionare la società: “Vorrei che ciascuno fosse libero di vivere come vuole, nel rispetto delle leggi. Se qualcuno vuole adorare un dio con la testa di elefante, benissimo, mi è anche simpatico. Se qualcuno vuole adorare una vergine che ha partorito, benissimo, affari suoi. Mai vorrei, e mi batto, per una società in cui la religione sia un fatto privato, che non interferisca con la convivenza sociale, con la scrittura delle leggi e con la politica, come invece fa in Italia e in alcuni paesi islamici”.
Quello che preoccupa, invece, il filosofo e scrittore spagnolo Fernando Savater è il fantasma del ritorno delle guerre di religione: “Tra un fanatismo islamista capace di provocare la distruzione nelle città di Oriente e Occidente e l’appagato ma facilmente spaventabile consumismo delle democrazie scettiche. Anche se un fanatismo produce il suo contrario e la minaccia dello jihadismo ha risvegliato un’intransigenza di segno opposto, che in nome dei valori cristiani minacciati dà il via a ostilità contro i musulmani, gli immigrati eccetera …”.
Ma c’è anche un’altra dimensione della religiosità nella nostra società contemporanea, quella che il filosofo Carlo Augusto Viano definisce come: “La conservazione di uno spazio religioso inerte” che “rende meno sorprendente quello che viene spesso inteso come un ritorno delle religioni. Dissociate da imposizioni di modi di vita, le credenze religiose si sono in una certa misura conservate, pronte per essere riutilizzate”. E proprio su questa ambiguità pone l’accento la psicoanalista Simona Argenteri, rilevando che nella società attuale, più che un reale bisogno di trascendenza, c’è un ripiegarsi e imbolsirsi in una sorta di pseudomisticismo magico e superstizioso, di largo consumo come la new age, che protegge ed evita il conflitto, “lasciando vivere dentro di sé identità molteplici. È un dissimulare lieve al limite tra conscio e inconscio nel quale, grazie a microscissioni difensive, l’inganno viene fatto anche a se stessi … anche la tolleranza e il pluralismo, in tempi come questi, non sono frutto del rispetto dell’alterità, ma dell’indifferenza”.
Potremmo allora inferire che il senso di colpa che ha caratterizzato, per secoli, in particolare l’Occidente cristiano, sembra non essere più così chiaramente riscontrabile; la colpa, oggi, forse può intendersi, non tanto come un peccato originale universale e inevitabile come la vita stessa, ma come un male del vivere connotato soprattutto da un doloroso senso di vergogna, espressione di un vissuto di mancanza. Così come nella sessualità, alla repressione si è sostituita la compulsione edonistica, nell’uomo del XXI secolo, la colpa commista alla vergogna consiste nell’insoddisfazione per non essere riuscito ad affermare pienamente e narcisisticamente se stesso. Come ha scritto la psichiatra Evelyne Pewzner, nella società contemporanea “Il desiderio individuale tende a sopravanzare qualsiasi valore. Lo sviluppo individuale è eretto a valore assoluto … la soddisfazione narcisistica diventa un valore prioritario, aumentando la probabilità di vedere crescere l’insoddisfazione permanente, perché non c’è Desiderio che non si scontri in un momento o nell’altro con il duplice ostacolo della realtà e dell’Altro …”.