Matteo Perini è un fotografo romagnolo, classe '82, che si occupa di fotogiornalismo e fotografia documentaria. Ha realizzato svariati progetti tanto in Italia quanto all'estero: Balcani, Spagna, Emirati Arabi, Africa. Ha, inoltre, documentato le visite in Italia di alcuni importanti personaggi come Aung San Suu Kyi e il Dalai Lama. Più che ad ogni altro luogo, la carriera di Perini è visceralmente legata al continente africano. Dopo alcuni reportage realizzati nel Burkina Faso settentrionale, alle porte del Deserto del Sahel, il giovane fotografo è giunto in Benin, terra di cui ha raccontato, con forte impatto visivo, la religiosità e le pratiche cerimoniali dei culti sincretici africani. Frutto di questa ricerca è Celestial Voodoo, reportage vincitore del premio Documentary Award al concorso internazionale Humanity Photo Award 2015 organizzato da CFPA & UNESCO.
Partiamo da una prima domanda introduttiva sul tuo profilo professionale. Pur non avendo trattato nella tua carriera solo di fotogiornalismo, il tuo è un occhio prettamente "documentario". Come e perché hai imboccato la strada del reportage?
Il mio mestiere è umile, mi considero artigiano della fotografia, ciò mi permette di vivere tramite servizi commerciali e per eventi, grazie anche a collaborazioni con agenzie, associazioni e alcune riviste. In questi anni ho fatto di necessità virtù, mi sono dedicato con amore alla mia passione e ho sempre continuato a seguire il sogno di poter lavorare raccontando attraverso parole e immagini. Il sogno consisteva nel narrare storie che parlassero all’essere umano della sua stessa umanità, con meno filtri possibili, con sincerità. Sono testardo e ho deciso che lo scopo dovesse essere perseguito, nonostante le difficoltà legate alla crisi dell'editoria e delle agenzie fotografiche. Nel mio caso le possibilità che un reportage permette, cioè di mostrare qualcosa che mi ha emozionato profondamente cercando di lasciare un segno in chi osserva, mi dà soddisfazione, così la passione si autoalimenta. Inoltre documentare con le immagini ha una straordinaria capacità: la fotografia ha una potenza iconica e mnemonica grazie alla quale le immagini statiche si possano saldare in noi molto profondamente. Penso che alcune delle immagini di Celestial Voodoo abbiano questa capacità, ad esempio l'istantanea che ritrae le due bambine all'ingresso della chiesa celeste. Una guarda con un fare quasi minaccioso, alcuni dicono sembri posseduta, mentre al suo fianco una piccola amica giace rovesciata sulla schiena, in una posa dolce e abbandonata, angelica. Una contrapposizione forte, un contrasto che crea un senso di spaesamento che penso venga spesso veicolato da questo lavoro così misterioso. Sono fortunato di poter utilizzare il mezzo fotografico, e questa riconoscenza mi spinge incessantemente a cercare di migliorare quello che considero un dono, approfondendo la mia cultura e la mia ricerca. Ho iniziato il mio percorso con un workshop di Giulio di Meo, e ora faccio parte dell'associazione Witness Journal, che si propone di condividere la cultura del fotogiornalismo sociale tramite attività di formazione e promozione di eventi integrati.
Uno dei tuoi ultimi progetti, Celestial Voodoo, nasce in Africa e racconta la realtà culturalmente ricchissima del Benin. Quali sono gli elementi che rendono il sincretismo religioso dell'Africa Occidentale un fertile campo d'indagine fotografico?
Per le strade di Ouidah, città votata ad essere capitale spirituale del Benin e famosa per il vicerè “ChaCha” De Souza raccontato da Chatwin, spesso si può assistere a situazioni incredibili. Antiche divinità che tornano dall'aldilà, riti d’iniziazione con sacrifici rituali, danze di fedeli in stato di trance, feticci magici, processioni, visioni e battesimi per immersione. Dal punto di vista fotografico l’impatto di questa fertilità espressiva diventa quasi soverchiante. Infatti raccoglierlo non è facile, lasciarsi trasportare dagli eventi è invece norma. Nel mio reportage Celestial Voodoo tento di indagare i tratti che accomunano i riti della chiesa Cristiana Celeste - fede di transizione del ramo delle chiese sincretiche “Aladura” - e del Vudù, antica religione tradizionale le cui origini si perdono agli albori dell’umanità.
Celestial Voodoo è un reportage in cui a dominare è il movimento. Tra i tuoi soggetti, il comune denominatore è una fisicità impetuosa e tu sei riuscito a ritrarre efficacemente la catarsi spirituale che scaturisce da questa convulsione dionisiaca. Come si muove un fotografo in questa ritualità frenetica?
Ci entra dentro, un vero e proprio tuffo. Se ne esce bagnati e ricoperti di uno strato di mistero che si incolla, e non se ne va, come la polvere rossa delle strade sterrate aderisce con vigore alla pelle sudata. Fra dicembre e gennaio, a livello dell’equatore, il calore e l’umidità non danno molto scampo. Il segreto è rimanere saldi alla condizione di concentrazione necessaria per discernere la realtà di essere un semplice testimone, anche se spesso in uno status privilegiato, che può assistere a una delle attività umane di più forte impatto psicologico ed emotivo che possano esistere. La fotocamera a volte è il mio mezzo, quasi un espediente, per esaudire e accondiscendere a una curiosità atavica che spero non mi abbandoni mai. Entrare in un mondo così riservato e privato non è stato semplice, bisogna poter conoscere un bravo fixer, farsi mettere in contatto con responsabili e sacerdoti dei culti, presentarsi nel modo giusto e rispettare le loro regole di comportamento. È stata un'esperienza unica, alcune volte anche davvero divertente, per le situazioni assurde che sono capitate. Come essere avvisati, con certo sgomento, da un passante in motorino che si era fermato proprio sulla strada sterrata che costeggiava la palude in cui mi ero appena immerso per alcune riprese, che quei cari lidi fossero frequentati spesso e volentieri proprio dai pitoni, sacri e intoccabili protettori di Ouidah. Da brividi. E anche quando un feticheur indemoniato mi caricò come un bue impazzito proprio in mezzo alla folla durante un rito magico: aveva in bocca un capretto sgozzato e i suoi occhi spruzzavano fuoco! Mi spintonò così forte, mentre lo ritraevo nella goffa corsa verso di me, che quasi mi fece stramazzare al suolo, suscitando fra l'altro una grande ilarità del pubblico che partecipava all'evento. Questo perché mi ero per un attimo allontanato dall'ala del mio protettore, una persona che faceva parte della famiglia vudù che stava officiando il rito magico e propiziatorio in questione.
Parliamo di Mystique Ouidah. In collaborazione con Simone Stefanelli hai realizzato anche una narrazione in movimento del voodoo e del Benin. Hai sentito la necessità di integrare al tuo progetto un documentario video proprio perché ritenevi che a questo moto costante il quadro statico della foto stesse stretto?
Il progetto di Mystique Ouidah nasce da una sensazione di "contrasto", da tempo la identifico così. È la sensazione di totale annichilimento che pervade lo spirito e scuote l’umanità di chi si trova ad assistere continuamente ai soprusi dettati dall’estremismo, di qualunque matrice religiosa si tratti. In contrasto con una visione universale del senso del divino, dell’annullamento delle inutili e fasulle barriere interreligiose, e della percezione di un dio camaleonte - il “Dieu est cameleón” rivelato da due personaggi comuni quanto straordinari, incontrati durante le riprese del documentario. Quale miglior metodo, per approfondire un capitolo già aperto, poteva essere l’utilizzare la voce dei veri protagonisti di questo incredibile “movimento” di integrazione sociale e spirituale? Quale miglior mezzo del sonoro e del movimento per poter coinvolgere lo spettatore? Con il documentario ho potuto sfruttare l’enorme potenziale dei suoni e delle poliritmie africane, sonorità fondamentali per l’esperienza mistica collettiva, un elemento emotivo che si insinua nella mente rompendo qualsiasi barriera.
Il Benin è anche il palcoscenico di un altro tuo progetto, Maison des rêves, la Casa dei Sogni, che è per alcuni aspetti tecnici distante da Celestial Voodoo. Ce ne parleresti?
Questo progetto è stato realizzato per promuovere la magnifica casa famiglia Maison de la Joie - “Casa della felicità”, che mi ha ospitato e si trova proprio a Ouidah. Un volume stampato per dare un piccolo aiuto economico a chi si prodiga per aiutare bambini e donne in stato di necessità. All’interno si trovano circa dieci racconti e immagini tematiche. Storie molto drammatiche si intervallano a momenti comici. Tutto porta però a una speranza, a una luce che è facile percepire quando si entra alla Maison. Sono molto contento che le stampe realizzate, grazie anche a un crowdfunding, siano state distribuite fino all’ultima copia. Ora ne conservo una versione digitale che invio molto volentieri a chi fosse interessato, e invito a offrire un piccolo contributo visitando il sito di Maison de la Joie.
Il lavoro del reportagista non può prescindere da una rete di contatti con le realtà del territorio che si sta raccontando. Che ruolo svolge la fotografia documentaria nella costruzione di una socialità dal basso?
In Benin, il documentario realizzato con Simone, ha contribuito a trasmettere ai nostri attori di vita reale, e a tutte le persone che abbiamo contattato per supportarci, un senso di appartenenza a una condizione speciale, rara e da tutelare. Che fosse già vivo in loro questo sentimento di condivisione e orgoglio è lampante, ma proprio il motivo per cui due occidentali volessero trasmettere questo messaggio a casa propria li rendeva ancora più fieri e felici. Questo è stato davvero un gran bel risultato di consapevolezza che abbiamo potuto trasmettere dal basso, partendo da un gruppo di amici che condividono il loro tempo e la passione per la musica, che abbracciano diverse fedi che non sono mai state per loro un ostacolo. In Italia abbiamo avuto la possibilità di trasmettere il messaggio in alcuni istituti scolastici, grazie all'interessamento di insegnanti che avevano assistito alle proiezioni che abbiamo realizzato in piccoli cinema in Emilia Romagna e Toscana. È stata una grande soddisfazione personale, ragazzi di istituti secondari di primo e secondo grado erano pieni di domande e cercavano di comprendere con grande curiosità e senza pregiudizi.
Quali sono i tuoi prossimi obiettivi? Il mal d'Africa si farà sentire e tornerai da quelle parti o hai in programma di approdare su nuovi lidi?
Il progetto di sviluppare il documentario Mystique Ouidah, con una narrazione più approfondita dei caratteri del paese legati alla tratta degli schiavi e alle responsabilità del mondo occidentale, è una parte del programma futuro. Un altro progetto africano in corso d'opera, al quale collaborerò, lo sta attualmente realizzando Simone, da poche ore rientrato dal Burkina Faso, per un racconto sulla straordinaria figura di Thomas Sankara. Sankara è stato personaggio fortemente iconico, spesso accostato alla figura di "Che" Guevara. Il suo ruolo è stato fondamentale per la riscossa dei valori umani e di appartenenza per tutti gli abitanti dell'africa occidentale. Lottò e raggiunse grandi risultati in campo di sviluppo economico e sociale, fu brutalmente assassinato dal proprio vice, Compaorè, con la complicità degli stati europei per i quali era divenuto troppo scomodo. Sankara aveva cambiato il nome del suo paese, da Alto Volta a Burkina Faso, che significa "Terra degli uomini integri". Questo lascia intendere molto sulla forza dei suoi ideali e sul motivo della sua morte.