Preferiva le case del centro. Erano tutte così uguali, quelle case borghesi: così protette e così facili da violare. Bastava indossare un cappello da postino e avere tra le mani un pacco da consegnare. Lui, il miglior ladro di appartamenti di Milano, una specie di leggenda in città, non aveva mai fallito.
Eppure la sua tecnica, in tanti anni, non era mai cambiata. Seguiva per qualche giorno le abitudini del condominio che aveva prescelto. Imparava a memoria i nomi sul citofono, si accertava delle abitudini di tutti gli inquilini. Si orientava quasi sempre su famiglie senza bambini e senza cani: sono quelle che più spesso partono in vacanza. Poi tentava la consegna di un pacco con la sua bella divisa da postino. Era il modo migliore di avvicinarsi all’appartamento senza destare sospetti.
Dentro il pacco vi era il suo ferro bulgaro, uno Svenson 740, che riusciva ad allineare, in pochi secondi, i componenti di cifratura interna della serratura. Uno spray della Raster, serviva invece a disattivare la batteria dell’allarme. Quel palazzo di via Rosselli, sembrava lo invitasse ad entrare.
Da almeno cinque giorni, nessuno citofonava alla famiglia De Astis. Il cognome prometteva gioielli nella stanza da letto, argenteria nel salone, e una cassaforte nello studio. Indossò il suo cappello da postino e attese che qualcuno aprisse il portone. Poi quando vide una signora anziana trafficare con la sua borsa, per cercare le chiavi, si fece coraggio e le si avvicinò, con l’aria irrequieta di chi ha molte consegne da fare. Le chiese, nel modo più affabile possibile, a quale piano abitasse la famiglia De Astis. La signora gli spiegò, con l’entusiasmo che hanno solo le persone anziane quando gli è dato un pretesto per parlare, che la famiglia De Astis abitava all’ultimo piano, che era partita in montagna, che non sarebbe tornata prima di una settimana, che se voleva poteva lasciare a lei quel pacco, che aveva appena sfornato degli ottimi biscotti, che anche suo nipote faceva il postino. “Grazie” rispose “non importa, vuol dire che ritenterò la consegna un altro giorno, salgo solo un attimo per lasciare sotto la porta l’avviso con i recapiti della ditta per il ritiro del pacco”. Entrò in ascensore con la donna anziana, che scese al terzo piano, mentre lui proseguì fino all’ultimo.
Quando si trovò davanti all’appartamento della famiglia De Astis, si accorse subito che non vi era nessun allarme, né udì l’abbaiare di un cane. Mise il sensore laser sul pannello della porta ed ebbe conferma che, all’interno, non vi erano rumori o movimenti. Sarebbe entrato nell’appartamento quella stessa notte. Uscendo dalla palazzina mise un po' di resina nella serratura del portone sulla strada. Sarebbe stato più facile aprirlo, quando vi avrebbe fatto ritorno. Quella stessa notte, alle tre in punto, era di nuovo all’ultimo piano di quel palazzo, davanti alla porta di ingresso della famiglia De Astis.
Ci mise tre minuti circa, con il suo Svenson, per aprire la porta. Appena entrato il battito del suo cuore si fece regolare. Avvertiva solo a tratti le accelerazioni cardiache di quel mostro che aveva scoperto abitargli dentro: coronaropatia a rischio ischemico, aveva detto il dottore. Non aveva ben capito cosa fosse. Un bip del suo orologio da polso gli ricordava che erano le tre e un quarto. Aveva circa venti minuti per svaligiare quella casa. Venti minuti per entrare nella vita degli altri, venti minuti per uscirne.
L’appartamento era pieno di mobili antichi e quadri di valore, esattamente come lo immaginava. Soffitti alti e pavimento in marmo ovunque. Nel corridoio, una galleria di volti su tela, evocava qualche nobile casato. Superò il bagno e si trovò in una stanza che doveva essere quella di un bambino. Non doveva avere più di undici anni, a giudicare dai libri di scuola, sulla mensola. Quella stanza gli trasmetteva una strana emozione. Tra i libri, un album di foto di pelle rossa con il nome del ragazzo, Andrea. In un angolo della stanza, un sax e qualche spartito. Anche lui, in un’altra vita, suonava il sax. Una navicella spaziale, al posto del candelabro, proiettava tutto intorno, sulle pareti, i contorni delle costellazioni. Insieme a quelle stelle cominciò a girargli anche la testa. Il battito del cuore rallentò, mentre una grossa luna gli illuminava il volto. Come d’istinto prese l’album di pelle rossa, e lo infilò nel sacco di iuta.
A Milano era il più famoso ladro d’appartamento. Una specie di mito. Girava voce che una donna bellissima, di nome Alice, undici anni prima, gli avesse rubato il cuore. E così, si raccontava che provasse gusto a violare il cuore delle vite altrui. Una specie di vendetta, mentre il suo, di cuore, lo abbandonava, giorno dopo giorno, con quel rischio di ischemia.
Il bip dell’orologio da polso gli ricordò che aveva ancora quattordici minuti. Il suo sacco era vuoto, a parte quello stupido album di foto, rubato dalla stanza del bambino. Attraversò il salone, e si trovò nella camera matrimoniale. Un lungo comò di marmo faceva da contraltare al letto a baldacchino. Due comodini vuoti, agli angoli del letto, un abat jour in tessuto sdrucito, vicino alla poltrona, due portaritratti sul comò: tutto raccontava di una camera vissuta solo per dormire. Si mosse lentamente nel silenzio ovattato di quella stanza, senza sapere esattamente da dove cominciare. Il rischio del suo mestiere, lo sapeva bene, era la curiosità. All’inizio della sua “carriera” riusciva a evitare ogni coinvolgimento emotivo. Nell’ultimo periodo, però, le case che visitava gli raccontavano le vite che avrebbe potuto vivere, l’uomo migliore che avrebbe potuto essere.
Doveva cercare la cassaforte.
Dopo pochi passi, nella stanza, si sentì nuovamente mancare. Di nuovo il cuore cambiò ritmo, ma non era colpa dell’aritmia. Fu un profumo a togliergli il respiro, un profumo che conosceva bene. Accese la luce dell’abat jour e vide quella foto, racchiusa in una cornice in legno, sulla libreria. Era lei, la sua Alice, poggiata a un muretto, mentre una mano – che non era la sua - le cingeva la vita. Un uomo accanto a lei sfidava l’obiettivo, con l’aria di chi possiede e non ama. Lei che odiava le foto, regalava alla macchina le gemme azzurre che aveva al posto degli occhi. Aveva lo stesso sorriso di quel giorno in cui, tra loro, tutto stava per finire, ma per un paradosso triste sembrava che tutto stesse per iniziare. Ricordò di loro due quel giorno, del tramonto, della gente seduta tra i tavoli, del vino nel bicchiere, attraversato dagli ultimi raggi di sole, che regalava al cristallo riflessi rubino.
Ricordò gli occhi di Alice.
Il cuore continuava a fargli male, mentre i ricordi lo aggredivano, spietati. Ricordò quel vecchio con la fisarmonica che suonava, tra i tavoli, illudendosi che qualcuno lo ascoltasse. Ricordò che si era messo a correre, per andare a prendere il suo sax in macchina, per accompagnare quella fisarmonica. Ricordò di lei che rideva felice, e con la sua risata fermava il tramonto.
Un altro bip dell’orologio, gli ricordava che aveva ancora dieci minuti. Mise la foto di Alice nel sacco, insieme all’album del piccolo Andrea. Nella stanza da letto una grande cabina armadio, con le sue mille camicie di seta e cachemire, quelle che lei amava tanto. Dall’altra parte dell’armadio, abiti drappeggiati e pellicce, la sua seconda vita, quella che non aveva vissuto con lui. Sulla poltrona di fronte al letto, una camicetta rosa: la stessa di quel pomeriggio d’agosto di vent’anni prima. La stessa di quella foto sul comodino, in cui sorrideva come non avrebbe mai dovuto. I suoi occhi limpidi come il cielo, la mano di lui sulla sua pancia rotonda che nascondeva una nuova alba.
In un angolo della stanza pantofole in velluto, maschili, eleganti, come l’uomo nella foto. Pensò che se la vita avesse preso un’altra direzione, potevano essere le sue quelle pantofole. Se le infilò. Studiò con attenzione, nella cabina armadio, la collezione di cravatte firmate di quell’uomo. Finirono nel sacco, insieme a due completi lucidi, un paio di scarpe, una vestaglia di seta. Gli tornò in mente di quel litigio sugli scogli bagnati, undici anni prima, il profilo della schiena di lei mentre si allontanava, il vento che giocava con il suo vestito. Quell’estate, a Nizza, era inverno. Poi notò all’angolo della stanza un posacenere. Lei che aveva giurato che avrebbe smesso di fumare, lei che aveva giurato che lo avrebbe amato per sempre. Si chiese se quell’altro si fosse mai accorto di quanto lei fosse bella.
Nel bagno non v’era traccia di rasoio e dopobarba. Solo due spazzolini. Immaginò che quello di colore blu appartenesse all’uomo e lo infilò nel sacco. Il suo orologio da polso gli concedeva ancora cinque minuti. Chissà l’ischemia quanto tempo gli avrebbe concesso. Si ritrovò senza volerlo nella cameretta del ragazzo. Su un tavolino basso c’erano fogli bianchi e pastelli colorati. Si chinò sul tavolino e cominciò a disegnare un sax. All’improvviso il bip dell’orologio gli ricordò che aveva ancora due minuti. Accese il camino, in salotto. Poi bruciò, uno a uno, gli oggetti che aveva infilato nel sacco. Gettò nel fuoco le cravatte e la vestaglia, le pantofole di velluto scure, gli abiti gessati, lo spazzolino da denti blu, ogni traccia di quell’uomo. Poi gettò tra le fiamme anche l’album in pelle, con le foto del piccolo Andrea.
Per la prima volta andò via dall’appartamento senza portare via nulla. Richiuse la porta alle sue spalle e fu subito in strada. Cominciò ad accelerare il passo, poi prese a correre. Intanto l’album di pelle si accartocciò tra le fiamme e si aprì come un ventaglio rotto. Bruciavano le foto del piccolo Andrea, quelle di Alice con il pancione. Bruciava, tra le foto, un test del DNA, di undici anni prima, dell’Ospedale Pediatrico San Raffaele.