Italia. Cuore pulsante della parola “tradizione”, per noi italiani questa parola non è sinonimo di patriottismo, per noi significa conservare quello che le generazioni prima hanno cercato con sudore, fatica e ottimismo di far arrivare sino a qui. Essere italiani significa essere conservatori di qualcosa che al tempo stesso è e non è nostro; ogni singolo abitante del paese è guardiano di un piccolo angolo di territorio: un milanese non sarà mai un siciliano, un valdostano non sarà mai sardo e un ligure non sarà mai napoletano così come un romano non potrà mai essere piemontese. Razzismo? Assolutamente no.
Siamo portatori di identità ed è proprio ciò di cui amiamo vantarci in ogni angolo del mondo. La nostra cultura si basa su un ventaglio di infinite colorate sfaccettature portatrici di pregi e difetti ed è proprio il motivo per cui siamo irreparabilmente affascinati da questa terra. Ogni regione del paese ha una propria energia e identità che si manifesta nei suoi cittadini, ogni italiano è diverso dall’altro (e non dico solo dal punto di vista umano) e per quanto possa criticare il proprio paese ne è portavoce e, ammettiamolo, vogliamo stare comodi: siamo visceralmente pigri e forse è anche per questo che (sino ad ora) il nostro paese non è mai stato eccessivamente condizionato dagli altri.
Mentre adesso... accettiamo tutto quel che ci viene proposto.
Ieri come oggi uno degli specchi dell’anima di un paese era la gastronomia. Grazie alla sua conformazione l’Italia può permettersi di vantare un clima obiettivamente favorevole all’agricoltura e alla produzione di determinati alimenti le cui numerose ricette tramandate di generazione in generazione hanno stuzzicato l’interesse e la gola di chef e intenditori internazionali. Non è un discorso di dieta mediterranea o di colori di frutta e verdura, è un perfetto connubio tra territori diversi, ricerca personale ed esperienze trasmesse.
Vi sfiderei ad andare una volta in ogni Paese senza mai mangiare nei ristoranti (se non quelli tradizionali), ma cercando la VERA tradizione gastronomica del posto; vedrete che bene o male adattando le tecniche e le materie prime allo stato delle persone e dell’economia locale il numero concreto di ricette e pietanze ruoterà attorno a un numero variabile di rielaborazioni degli stessi prodotti; in sintesi mangerete spesso lo stesso piatto girato in modi diversi.
Volete scoprire l’Italia? Allora siete costretti a girare le 20 regioni che ci rappresentano e, fidateVi, nemmeno gli italiani sanno come si mangia “davvero” in tutto il territorio perché, per fortuna o purtroppo, siamo schiavi anche noi del consumismo e del fascino di quanto non ci appartiene e trovare i classici locali “accalappia turisti” è molto facile. “L’erba del vicino è sempre più verde” no? L’Italia in questo momento si copre con una maschera pirandelliana che cerca di nascondere, siamo consci di portarla, ma non lo ammettiamo nemmeno a noi stessi cercando di mostrare al mondo quanto abbiamo sempre fatto vedere, ma in realtà annaspiamo, cercando sempre più di somigliare agli altri. Dopo i fast food americani (di cibo americano) arrivano quelli americani di cibo italiano. Ebbene sì, dal 5 ottobre, con partenza da Milano, l’Italia ospita una catena fast americana che ripropone uno dei nostri simboli: la pizza. La pizza americana agli italiani. Seriamente?
Non è questione di cosa viene proposto o del come, credo semplicemente che questo passo evidenzi una crepa profonda nell’identità della nostra cultura. Qualcuno potrebbe indispettirsi dicendo “quella è pizza americana, non italiana”; può essere, ma ciò non toglie che sia uno dei piatti chiave del nostro territorio: farina, acqua, olio, pomodoro, mozzarella e basilico. Per diventare “pizza americana” non dovrebbe essere stata adattata alle materie prime reperibili lì e non qui? Nel momento in cui un prodotto italiano va in America e torna in Italia (quindi con prodotti italiani) significa che è nuovamente italiano, sbaglio? Non si tratta di sollevare polveroni, o diventare polemici. La domanda è una: com’è possibile che un paese tradizionalista come l’Italia non sia in grado di difendere una delle poche peculiarità che tutt’oggi la differenzia dagli altri? Ci definiamo “culla gastronomica” e cresciamo come un groviglio non definito di influenze esterne, ma all’estero caschi il mondo che non ci si vanti di essere italiani.
Se il movimento di Slow Food è nato nel nostro territorio ci sarà un motivo. Non si tratta solo di dare voce ai piccoli produttori grazie alla forza trainante del suo fondatore, ma si tratta di offrire maggiore tono a quello che è un coro, non una voce solista. Persone, città e stati in proporzione hanno le proprie battaglie, ma se a cascata sappiamo solo dire “sì” per non scomodarci troppo, come possiamo pretendere che qualcosa cambi o si conservi? “Il mondo è bello perché è vario”, un classico detto conosciuto da chiunque, ma che se continueremo a volerci omologare con il prossimo non sentiremo molto spesso. E se guidassimo un’intervista alle generazioni dagli anni ’90 in poi sul tema del viaggio e della cucina cosa succederebbe?
La “buona cucina” è il viaggio fisico e mentale degli appassionati che non desiderano fermarsi al solo “osservare” un luogo, ma ne bramano il gusto e l’identità; se tutto il mondo diventasse “paese” cosa succederebbe? Se da Milano a Tokyo trovassimo allo stesso modo cibo\vestiti\persone? Viaggiare significa scoprire, scoprire significa essere guidati da un interesse che, se continuiamo a soffocare prima o poi sparirà del tutto accontentandosi di fare un clic al pc per ordinare la cena a casa e vedere quattro foto su Facebook. Le catene, i vestiti di marca o gli oggetti che compriamo come souvenir quando facciamo un viaggio avrebbero lo stesso valore se potessimo trovarli ogni giorno al negozietto sotto casa? Vogliamo mettere con la sensazione di trovarsi in quel dato posto, magari con una persona speciale a mangiare quella particolare pietanza avvolti da un vortice di odori, sensazioni e colori che non sarebbero ripetibili nella quotidianità e nella tranquillità di “casa”?
La bontà di un alimento è enfatizzata da quel che ha intorno, le nostre emozioni non sono ripetibili e non dovrebbero essere rinunciabili. Sono probabilmente una romantica vittima di persone che lo erano anche più di me, ma credo che certi valori non dovrebbero essere influenzati dalla crescita di un mercato consumistico che forse grazie alle tecnologie sta azzerando le distanze fisiche, mentre quelle sociali crescono a dismisura. Come direbbe L. Sepulveda “I nostri sogni sono irrinunciabili, sono testardi, ostinati e resistenti”. Per un italiano il resto del mondo può essere un sogno, così come l’Italia potrebbe essere quello di chi non ha mai avuto la possibilità di conoscerla. Siamo ambasciatori dei nostri sogni, delle culture e del nostro paese e, disgraziatamente, l’unico modo per preservare tutto questo è rispettarlo.