Per riallacciarmi a quanto scritto all’inizio di questo “trittico” sugli aspetti della Prima guerra mondiale che più di altri hanno influito sul mio interesse per questo argomento e cioè quello umano e quello che riguarda l’atteggiamento dei soldati nei confronti di questo evento, volevo per concludere, considerare il comportamento di questi uomini e in particolare dei sottufficiali, che in quanto quasi tutti provenienti dalla borghesia cittadina e avendo per la maggior parte un’istruzione superiore, sono quelli che più ci hanno lasciato testimonianze scritte della loro esperienza in trincea e sopratutto di quando ritornavano nelle proprie città grazie a una licenza.
In licenza si andava dopo un certo periodo di tempo, non precisato, passato al fronte, o per “premio”, o quando c’era la possibilità di dare un po’ di “respiro” alle truppe, come ad esempio dopo la quarta battaglia dell’Isonzo, terminata ai primi di dicembre del 1915, con conseguente rallentamento delle operazioni militari in vista delle nuove offensive di primavera, quando le truppe a turno andarono in licenza per quindici giorni.
I soldati pensavano principalmente alla licenza come un’occasione per poter riabbracciare i propri cari, ma anche assaporavano la possibilità di poter raccontare le proprie esperienze di guerra e per questo venir accolti come coloro che stavano combattendo per l’onore e la salvezza della Patria e per difendere coloro che erano rimasti trepidanti a casa, sperando nel loro piccolo di essere considerati come degli “eroi”. La realtà che trovarono invece fu molto diversa. Trovarono un Paese “lontano”, dove l’idea della guerra era ancora quella idealizzata dalla propaganda del “maggio radioso”. "Quando arriverete a Trento e Trieste?" era una delle domande che più frequentemente veniva loro rivolta dalle persone con cui si intrattenevano. Trovarono i “caffè” e i luoghi di aggregazione sociale, cinema e teatri, pieni di gente distratta, come se tutto fosse nella normalità, ma soprattutto, ed è quello che faceva loro più male, trovarono tanti giovani “imboscati” che continuavano a condurre la stessa vita di prima completamente indifferenti, se non anche pregni di un senso di altero fastidio, a quello che altri giovani come loro subivano nelle trincee del fronte.
Nelle città poco si sapeva della guerra, e in verità poco si voleva sapere se non quello che la propaganda scriveva sui giornali o trasmetteva al cinema. C’è un passo nel giustamente famoso libro di Paolo Monelli Le scarpe al sole che ci dà perfettamente l’idea di questa “distanza” che i cittadini volevano tenere nei confronti della guerra: …Ma io (Paolo Monelli) invece, sono uscito e sono andato al cinematografo. Al cinematografo proiettavano la battaglia per la presa di Ala. Che era qualche cosa di buffo, una concezione quarantottesca, truppe al Savoia! per quattro sullo stradone, piume di bersaglieri e trombe che sonavan l’attacco, ufficiali caracollanti, austriaci in fuga in ordine chiuso. Io espressi le mie proteste e la mia meraviglia con un po’ di esuberanza. Ma il mio vicino mi guardò di brutto e mi disse: "Scusi se non le piace se ne vada" - "Ma caro signore, non vede che buffonata? Io che faccio la guerra, le dico che la guerra non è così". – "E che cosa me ne importa? Cosa volete venire a raccontarmi la guerra come la fate voi! lasciate che me la gode riprodotta come me la figuro io".
Del resto se uno non aveva un figlio o un fratello o un marito o qualche altro parente al fronte come poteva sapere di cosa volesse dire, andare all’assalto di una postazione nemica sotto il fuoco delle mitragliatrici, per conquistare qualche metro di terreno in qualche zona sassosa di una montagna o in qualche altro luogo che nemmeno si sapeva esistesse? E anche questi poco sapevano lo stesso visto che la stretta maglia della censura vigilava sulle lettere che i soldati inviavano a casa. Spesso questi giovani in licenza venivano anche invitati a pranzi o eventi benefici, dove veniva loro chiesto di raccontare le loro esperienze, ovviamente non nei particolari, che avrebbero potuto offendere le orecchie delle signorine o delle attempate signore presenti che li stavano ad ascoltare.
“Questa seconda parte della licenza è più noiosa della prima. Non so che fare né dove andare: Piove sempre, nebbia, freddo. Non conosco nessuno. Vagabondeggio sotto i portici, passo delle ore solo, al caffè o al Circolo a leggere i giornali, fra gente sconosciuta. Mio padre sta in ufficio fino a tardi. Alla sera, dopo cena, vado al cinema-varietà. Una sciantosa canta una canzoncina nuova: 'Torna al tuo paesello ch’è tanto bello!' – e tutta la platea le va dietro nel refrain 'Ch’è tanto beeellooo…!' La sciantosa fa la mossa e tutti ridono. I palchi e le poltrone sono pieni di ufficiali e di belle donne. Ieri c’era un film commovente. In un intervallo mi accorgo che una signora, accanto a me, ha gli occhi rossi. Queste femmine si commuovono per le storie del cinema e rimangono indifferenti al gran dramma che noi combattiamo da due anni. (….). La licenza è finita stupidamente come è cominciata e proseguita. E parto, senza rammarico e senza nostalgia, Ormai mi sento spaesato. Non ci si intende più, noi delle trincee e quelli della città. Noi odiamo loro perché sono vili, codardi, egoisti, sfrontati e ladri. Essi odiano noi perché la nostra stessa presenza è una rampogna per loro. Ma essi sono i più forti. Noi si parte e ci si fa ammazzare; essi rimangono, ci ridono dietro e continuano tranquillamente a rubare, a tradire, a fornicare indisturbati ed a gridare Viva L’Italia''.
Così scriveva il tenente Mario Muccini nel suo libro - diario Ed ora andiamo! – Il romanzo di uno scalcinato. Come ben ci racconta Muccini, il risultato di queste licenze era che i soldati, ormai incapaci di sentirsi parte di questa realtà così lontana dal fronte e sentendosi quasi degli esclusi, incapaci di reintegrarsi in questa vita civile che sembrava averli dimenticati, accoglievano come una liberazione il dover tornare in trincea, il poter ritrovarsi con quei compagni con i quali avevano condiviso pericoli e fatiche, ma anche pane e quotidianità e spesso anche sentimenti ed emozioni, quei compagni che sicuramente erano gli unici che potevano capirli avendo condiviso le stesse esperienze, quei compagni che ormai erano diventati come fratelli: "Di che reggimento siete fratelli ? / Parole tremante nella notte / Foglia appena nata / Nell’aria spasimante / Involontaria rivolta / Dell’uomo presente alla sua fragilità / Fratelli". Come scriveva Ungaretti.
E questa distanza, oramai insanabile, si rese ancora più palese alla fine del conflitto, quando migliaia di reduci tornarono a casa. Dalle testimonianze raccolte sappiamo che pochi furono quelli che al loro ritorno in famiglia cominciarono a parlare della guerra, di quello che avevano fatto, di quello che avevano visto, di quello che avevano vissuto. Principalmente perché volevano dimenticare, ma soprattutto perché tanto orribile e disumana era stata la loro esperienza, così lontana da quella che era stata la loro vita precedente , ma anche da una qualsiasi vita normale, che avevano timore di non essere creduti. Fu questo uno dei principali motivo per cui alla fine del primo conflitto mondiale si formarono le prime associazioni d’arma, come ad esempio per citare la più famosa, l’Associazione Nazionale Alpini (A.N.A.) costituita nel Luglio 1919 in occasione di un imponente raduno di reduci sul quel monte che è considerato sacro alle Penne Nere che è l’Ortigara. Sodalizi dove i reduci, incontrandosi, avrebbero potuto parlare della loro esperienza in guerra, sicuri che chi li ascoltava avrebbe compreso tutto il loro dolore con la stessa consapevolezza di aver fatto il ognuno il proprio dovere, avendo condiviso le stesse loro esperienze, consapevoli che quello di cui raccontavano, come disse il grande Mario Rigoni Stern, pur riferendosi ad un’altra guerra: Ricordate che questo è stato.