Miró! Sogno e colore è il titolo della personale con la quale Bologna rende omaggio al grande maestro catalano, le cui opere saranno esposte nelle sale di Palazzo Albergati fino al 17 settembre. La mostra si compone di oltre 130 opere in prestito dalla Fundació Pilar i Joan Miró di Palma de Mallorca, città alle cui atmosfere mediterranee la carriera di Joan Miró è inestricabilmente legata.
Miró è un personaggio che ha attraversato il Novecento introiettando idee e stilemi di alcune delle più rivoluzionarie tappe della contemporaneità, alla costante ricerca di quel perenne senso di innovazione che lo ha proiettato ben oltre i confini del surrealismo stricto sensu. Miró! Sogno e colore non è una retrospettiva che segue minuziosamente il dipanarsi cronologico della parabola professionale dell'artista; ciononostante riesce a combinare un accurato grado di esaustività con l'analisi di uno dei momenti di massima fecondità creativa del genio spagnolo, a cavallo tra la metà degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta.
L'intrigo nasce da una semplice constatazione: il corpus di opere esposte a Bologna apre una finestra su tutto ciò che è esistito intorno al surrealismo, prima e dopo il manifesto del 1924, e il caso Miró è fondamentale nel comprendere come tante intuizioni di origine bretoniana si siano evolute in nuovi codici artistici affermatisi nel secondo dopoguerra. “Le forme germogliano e mutano, si intersecano, e così creano la realtà di un universo di segni e simboli”. Joan Miró ha perseguito per tutta la vita il fine della trasfigurazione, tanto nell'astrazione delle forme, quanto nel mutamento stilistico. Oltre ai 100 olii su tela, infatti, Palazzo Albergati ospita un composito universo di sperimentazione tecnica: acqueforti, gouaches, disegni a carboncino, a penna e a pastello, litografie, ceramiche e terrecotte testimoniano il polimorfismo dell'eclettismo artistico del grande maestro.
Analogamente alla quasi totalità delle personalità artistiche che si mossero tra gli anni Venti e il secondo dopoguerra, le vicissitudini biografiche dell'artista sono fondamentali per comprenderne l'evoluzione fenomenologica; l'esposizione bolognese pone fortemente l'accento sugli anni che Miró trascorse a Maiorca, isola che ispirò immensamente l'artista con il calore della sua luce e la quiete della sua natura. Barcellonese di nascita e maiorchino per parte materna, Miró è un artista che ha saputo codificare in maniera singolare l'essenza dei luoghi da lui vissuti. Dai primi schizzi vagamente fauve, testimoniati in mostra dal primo paesaggio ad olio dipinto nel 1908, Miró intraprende una strada che lo porterà a maturare artisticamente a Parigi, gravitando attorno al circolo di Montparnasse. Già in questa fase della sua carriera, Miró manifesta l'intenzione di “assassinare la pittura”, provocatorio intento che riesce a perseguire tramite una pluralità di intuizioni che lo renderanno, a detta di André Breton, il più surrealista tra tutti.
Negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione dadaista, questo assassinio della pittura si estrinseca tramite il ricorso all'oggettualità, alla poetica della materia fisica del collage e dell'objet trouvé; si tratta di un orientamento che ritorna, o meglio persiste, in due sculture di ceramica esposte in mostra e datate 1980-1981 (poco prima della morte dell'artista), opere che evocano tanto le maschere dada di Marcel Janco quanto la materia informe e informale di Jean Fautrier, sintetizzando, quindi, apertura e chiusura della parabola surrealista. Ma la materialità di Miró non significa solo tridimensionalità: il forte attaccamento alla terra, alla sua terra, è ciò che riporta l'artista in Spagna una volta consumatasi l'invasione nazista della Francia. Nel 1956, Miró si trasferisce definitivamente sull'isola di Maiorca, presso la tenuta-studio di Son Abrines, alla quale si aggiunge, nel 1959, Son Boter, edificio presso il quale l'architetto Josep Lluís Sert disegnerà l'atelier dell'artista, scenograficamente riprodotto in una delle sale di Palazzo Albergati. La mostra bolognese manifesta un occhio di riguardo per quella che è stata una vera e propria produzione ipertrofica successiva al trasferimento nello studio che Miró aveva sempre desiderato, dove poter essere, parafrasando l'artista stesso, giardiniere nel proprio orto.
La maggior parte delle oltre 130 opere di Miró! Sogno e colore sono riconducibili a questo periodo di taciturna riflessione in cui l'artista lavorò immerso nel silenzio della natura maiorchina. Dalla fine degli anni Cinquanta, fino alla sua morte, Miró ha messo a punto, coadiuvato dall'atmosfera contemplativa circostante, una spiccata opera di sintesi, nella traduzione degli aneliti della maturità surrealista in rinnovate intuizioni che seguitassero ad assassinare la pittura pur non abbandonando del tutto il pennello. Ecco, quindi, che Miró abbraccia il dialogo col testo, realizzando quel sensuale connubio tra pittura e poesia che aveva teorizzato già in passato una volta introiettata la lezione di Bréton e Paul Éluard. Frutto di questa suggestiva permutazione tra elementi visivi e letterari è la serie Lapidari, completata nel 1981, una grande opera in forma di libro composta da 24 acqueforti che reinterpretano la forma-quadro come testo visivo secondo la dialettica azione/reazione e racchiudono riferimenti letterari di autori anonimi catalani.
Il coronamento di questa fase si realizza col viaggio in Giappone del 1966, in cui Miró acquisisce la sintetica semplicità zen degli haiku, esplorando i meandri di quella scrittura calligrafica che aveva, da sempre, affascinato i surrealisti. Tra le opere presenti in mostra, esemplificativa di questa tappa della maturità dell'artista è Poéme, opera del 1966 che, oltre a evocare la relazione tra pittura e poesia, comprende un ulteriore elemento cardine nell'opera del Miró degli anni Sessanta-Settanta. Si tratta dei segni delle proprie mani sulla tela, espediente artistico indicativo, da una parte, della fascinazione per gli elementi primigeni della pittura parietale preistorica, e, dall'altra, sintomatico di un forte cambiamento in atto. In questo periodo, infatti, Miró si distanzia fisicamente dalla tela, non la tocca, se non camminandoci sopra. Il supporto pittorico è ormai disteso in terra, si proietta oltre, ben al di là delle luci e dei i colori dell'Europa mediterranea. Come naturale continuazione di una ricerca marcatamente surrealista (dovuta in gran parte agli esodi bellici dei maestri del vecchio continente), Miró volge uno sguardo all'America: fa suo non solo il dripping, segno distintivo di un espressionismo astratto dinamico e impetuoso, fatto di pastosa materia colante, ma anche e soprattutto un'acuta sintesi cromatica e morfologica simile a quella che proiettò la cosiddetta Scuola di New York verso le campiture monocromatiche preconizzanti il minimal.
Tutto ciò che era stato l'universo di visioni vivide e immaginifiche, la sfilata esplosiva di colori in opere come Il carnevale di Arlecchino (1925) o gli Interni olandesi (1928), si sintetizza in opere dai tratti gestuali bianchi e neri, analoghe ai grandi capolavori di Franz Kline. Il Miró di questi anni rappresenta, insomma, una diretta testimonianza di come il rapporto tra surrealismo ed espressionismo astratto fosse dominato da una logica di do ut des. Non è solo il colore ad intraprendere una strada di essenziale semplificazione in questi anni: alcuni dei capolavori esposti a Palazzo Albergati, quali Femme dans la rue e Oiseaux (entrambi del 1973), manifestano una ricerca di sintesi strutturale nelle forme di alcuni tòpoi dell'immaginario di Miró: la donna in quanto origine dell'universo e l'uccello come liaison tra il nostro mondo fenomenico e il macrocosmo magico ed eidetico dell'iconografia dell'artista. Ciò che permane nelle figure dell'ultimo Miró è un accentuato senso della verticalità, figlio anch'esso delle prime ricerche surrealiste sulla monumentalità dei moai dell'Isola di Pasqua.
La scelta di non sviluppare un percorso rigidamente cronistorico nelle sale di Palazzo Albergati si rivela particolarmente intelligente una volta constatato come le intuizioni del genio di Miró si siano costantemente riprese e rinnovate a distanza di anni, segnando le tappe di una parabola artistica assolutamente circolare. Sono esposte, a tal proposito, una serie di gouaches a pastelli e inchiostro del 1975 che rappresentano un diretto omaggio ad Antoni Gaudí. Il grande architetto catalano è stato, infatti, fondamentale nel trasmettere a Miró quel concetto marcatamente liberty di fitomorfismo fatto di morfologie germoglianti che ha caratterizzato la sua produzione della seconda metà degli anni Venti.
Se forme e figure in Miró hanno sempre abbracciato un'idea di flessuosità e sinuosità è lecito pensare ad esse come metafora di un percorso che amalgama intuizioni e citazioni in maniera fortemente avanguardista, risultando in un mélange alchemico fatto di sogni e colori in costante metamorfosi.